La prima tranche della stagione 2013 di Interzona è ricca di bei nomi: si è iniziato con Jon Spencer, che ha fatto il pienone, si è continuato con Bachi Da Pietra e Putiferio (quest’ultimi, sicuramente fra i gruppi più sottovalutati in circolazione, autori di una performance maiuscola), arriveranno Swans e Liars. Questa sera però, i fari sono puntati sui Matmos, che passano da queste parti a presentare il nuovo The Marriage Of True Minds.
Quando arriviamo, nel locale che va appena riempiendosi, è all’opera M.uto, one man band locale che pesca con naturalezza in tutti i campi dell’elettronica, da una techno mai particolarmente ballabile all’ambient ritmica, inglobando anche accenti più duri: gran cultura, sciorinata senza farla pesare ma con gusto e attenzione alla fruibilità della miscela. Un set d’apertura adatto, se si pensa che anche i Matmos fanno della capacità di svariare fra gli stili uno dei loro punti di forza, ma con loro si gioca davvero a tutto campo. Il contrasto fra i due titolari del nome non potrebbe essere maggiore: Martin Schmidt si presenta in perfetta tenuta da prof universitario, completo marrone chiaro e cravatta, Drew Daniel maglietta degli Emperor, occhiale da nerd e pettinatura alla tedesca. Prendono posto uno a fronte all’altro all’enorme banco su cui sono appoggiati gli strumenti e si inizia con una dilatatissima Very large Green Triangles, che ci da’ un saggio di come sia stato registrato l’ultimo disco: una cavia umana (che più tardi scopriremo essere il chitarrista) seduta su una sedia al limite del palco, con occhiali dalle lenti opache e le orecchie coperte da cuffie enormi, parla a ruota libera, evocando immagini di misteriosi triangoli (proiettati sullo schermo sul fondo), mentre un compiaciuto Schmidt prende appunti su un taccuino. Le parole sono interrotte di tanto in tanto da una melodia solenne e da inserti musicali a base di elettronica, campanelli, voci vocoderizzate, trombe da segnalazione nautica e così ci caliamo nel mondo dei Matmos, che come già notavamo in sede di recensione del recente The Marriage Of True Minds è ricco e mutevole, come sarà tutto il concerto. Si fa ora avanti un batterista, compare fra le mani di Schmidt uno strumento che parrebbe uno xilofono elettrificato e con Daniel che si cimenta con vocalizzi da indemoniato, i tre sparano una versione di E.S.P. da far impallidire i Khanate, ma che finisce con un pop strumentale delicato e sbarazzino; assistiamo poi alla sonorizzazione di una bacinella d’acqua, sembra di ascoltare un Miles Davis in apnea (Lipostudio… And So On), a un’orchestrazione per batteria, chitarra (sì, nel frattempo il chitarrista è stato reintegrato nelle sue originali mansioni) elettronica e… palloncini sfregati (Stupid Fambaloo), più avanti ci capiterà di trovarci alle prese un perfetto brano country. È inutile cercare di definire un genere per quello a cui stiamo assistendo, i musicisti giocano consapevolmente fra registri alti e bassi, dal grindcore all’ambient, dal jazz alla musica concreta, e protagonista della serata è l’idea totalizzante di suono, in ogni sua sfaccettatura. I due frontman interagiscono volentieri col pubblico, sia nelle pause che durante i brani (come quando Schmidt trova il tempo di augurare un “bless you” a qualcuno che aveva starnutito in sala), l’atmosfera è allegra, ma l’aria giocosa non può far passare in secondo piano lo stupore di vedere come ogni oggetto ed ogni suono più o meno convenzionale (animali di gomma, campanelli, calpestii…) sia orchestrato e integrato in un mondo sonoro coerente, in modo mai gratuito né fine a sé stesso. La cosa dà chiaramente assuefazione, se è vero che quel paio di pezzi che non sfoggiano alcuna trovata sono forse i meno memorabili della scaletta, ma sono inezie davanti a un concerto che mette in mostra una simile qualità di scrittura e di suono. A suggellare una serata di così alto livello, ci pensano i bis: rientrati dopo una fugace puntata nel backstage Daniel e Schimid chiedono al pubblico di fornire la base per il brano che si apprestano ad eseguire imitando il verso di alcuni volatili. Fra i presenti devono esserci diversi esperti ornitologi, se è vero che nel marasma che si viene a creare di distinguono chiaramente le voci del passero domestico, del gufo reale, del tacchino comune, dell’aquila dalla testa bianca e addirittura di un raro esemplare di urogallus obsoletus, sottospecie nord europea del gallo cedrone. Inutile dire che il risultato sia un delirio di urla ed elettronica appena addomesticato dall’innesto in coda di un brano quasi techno. L’ascolto dei pur ottimi dischi del gruppo di San Francisco non può che rendere solo lontanamente l’idea di cosa sia un loro concerto, così come, d’altra parte, queste poche righe: stasera avevamo la fortuna di averli vicini, ma ora che lo sappiamo, varrà la pena di fare molti più chilometri per assistere alla loro prossima esibizione.
(Foto di Emanuela Vigna)