Wallace Fest – 26/01/13 CSA Baraonda (Segrate – MI)

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Era un po’ che non capitava un evento di questo tipo e cominciavamo a temere che la tradizione della Wallace Fest si fosse persa. Tuttavia, negli ultimi anni, anche se non con la frequenza di un tempo, la Wallace è stata sempre attiva e ha continuato a sfornare dischi e questa serata, organizzata grazie all’associazione Mezzanine, ci dà l’occasione per fare il punto della situazione e verificare dal vivo alcuni dei progetti pubblicati di recente. Nel rispetto della doppia anima che caratterizza l’etichetta, una più di ricerca, l’altra maggiormente scanzonata, anche questa serata si divide in due, venendo incontro curiosamente alle esigenze della redazione: la prima parte più seria, così che i recensori più anziani e noiosi possano andare a letto presto, la seconda più sbarazzina e tendente all’alba, come piace alle nuove leve.
Lo scenario della zona artigianale di Segrate è a suo modo sinistramente affascinante: scacchiera di strade deserte, edifici di cemento squadrati, tralicci dell’alta tensione piantati in mezzo agli incroci in luogo delle rotonde, roba che neanche in Tetsuo. A sottolineare, fuor di metafora, la freddezza dell’ambiente è la temperatura, polare. Fortunatamente il Baraonda contrasta in tutto e per tutto con l’atmosfera esterna: colorato e caldo, già alle dieci è discretamente popolato, anche da volti noti di musicisti che si esibiranno o che negli anni hanno incrociato le traiettorie della Wallace. Il grosso comunque è gente “normale” fra cui spicca l’assenza del tipo umano (?) del milanese in tenuta indie-chic buona per una galleria d’arte, un concerto, un flash mob contro i tagli all’istruzione: già questo è un segno che la serata promette bene.
wallace_fest_QuasiviriL’inizio è particolare, giacché Xabier Iriondo e Gianni Mimmo snobbano il palco e optano per la piccola libreria del CSA, che si riempie rapidamente e rimarrà stipata fino alla fine, con anche qualcuno che occupa abusivamente spazio parlando ad alta voce, magari togliendo posto a qualcuno che sarebbe stato interessato ad ascoltare; vabbé, storia vecchia, tutto il mondo è paese. I due musicisti sono stati autori di un bel disco alcuni anni fa, ma quell’esperienza, registrata in una chiesa diroccata di Matera è ovviamente irriproducibile e stasera si opta per una cosa ad hoc. Parte Mimmo con un solo di sax soprano molto sentito, a cui si aggiunge, in un secondo momento, un canto preregistrato, dando vita ad un pezzo crudo e quasi tribale. Iriondo, alzatosi dal divano da cui finora aveva assistito all’esibizione, si accoda col suo Mahai metak con un campionario di suoni piuttosto cupi, dando vita a un sequenza fra jazz ed elettroacustica, dove è prevalentemente Mimmo a menare le danze. Si prosegue così fra momenti in solitaria ed altri in duetto, fra cui spicca quello fra lo strumento a fiato e lo Shahi Baaja, uno dei tanti curiosi strumenti dell’arsenale di Iriondo, davvero azzeccato. il finale è tutto di Iriondo, che imbracciata una chitarra da corna al cielo, si lascia andare ad un assolo in tono, non proprio in linea con quanto udito finora, che chiude un’esibizione comunque emozionante, impreziosita dal fatto che raramente certe proposte trovano spazi disposte ad accoglierle.
All’uscita ci troviamo la sala concerti murata: il pubblico è aumentato a dismisura, ci si muove a fatica e l’idea di prendere qualcosa al bar si rivela subito impossibile: i tempi sono  piuttosto serrati e rischieremmo di perdere e i Taras Bul’Ba, che sono già sul palco pronti a partire. Rispetto ai tempi di Incisione, che ce li ha fatti amare, ne è passata di acqua sotto i pontiwallace_fest_camillas e la musica proposta è oggi decisamente più morbida, un rock abbastanza classico, che tiene tuttavia conto del retaggio post e math. Basso e batteria conoscono ancora quadrature di matrice noise, mentre la chitarra si stende morbida su strutture decisamente dilatate, ma mai rarefatte. Pur non essendo così coinvolgenti come ce li saremmo aspettati, si esibiscono comunque in un concerto piacevole, che spicca per esecuzione e perizia tecnica e sa essere discretamente vario, con qualche momento addirittura danzabile, che contagia alcune donzelle fra il pubblico.
Ci sono pochi momenti di pausa dopo la conclusione, giusto il tempo perché si allestisca lo scarno set di Paolo Cantù/Makhno. La sua è al momento una delle esperienze maggiormente politiche della musica nostrana, più che per i concetti espressi, per i modi: una one man band del tutto autosufficiente, anarchicamente autarchica verrebbe da dire, che suona una musica che tira dritto, senza fronzoli, senza retorica. Voce, chitarra e macchine a scandire i ritmi: un concerto fulmineo, spirito punk in veste industrial, che pesca testimonianze dal passato e le ricolloca in un presente che forse ne ha bisogno più del tempo a cui appartengono. Fra l’iniziale Zena e la wallace_fest_x-maryconclusiva Custer vengono ripercorse quasi tutte le tappe dell’album: per la chiusura avevamo vagamente sperato, senza farmi troppe illusioni, nella comparsa di Federico Ciappini alla voce, ma mi rendo conto che era onestamente chiedere troppo. Il concerto è giù più che soddisfacente così. Con Makhno si conclude la prima parte della serata e all’annuncio delle band più scanzonate la vecchia guardia si dilegua come i vampiri davanti all’alba. Pienamente soddisfatta, comunque: musica seria is the new loud.
La serata danzante si apre quando salgono sul palco, con l’immagine quasi totemica della cover del loro ultimo disco a far da sfondo, i Quasiviri, il trio che fa per due. Nel senso che sembrano sei. Anzi, facciamo sette dal momento che il tastierista-saltimbanco Roberto Rizzo (R.U.N.I.) è, come sempre dappertutto sul palco, inscindibile dal suo studiatissimo e brettellatissimo supporto per tastiera. Così, tra un’arrampicata sulle casse e l’altra, succede il live. Ho paura a definirlo post rock, dal momento che è un’etichetta ormai desueta e, forse, non del tutto calzante, ma è quel che mi sembra. Pezzi dediti allo svalvolo più totale e solo apparentemente caotici martellati dal bassista Chet Martino (ex Ronin); bravo davvero questo power trio – completato dal batterista dei Satan Is My Brother e finiamola lì con ‘sti rimandi a gruppi della madonna) che non vedevo da un paio d’anni e che trovo entusiasmante come non ricordavo.
Seguono i Camillas che promettono sempre una bella dose di simpatia. Così tanto data per scontata che, forse per la prima volta nel mucchio di volte in cui li ho visti, mi concentro sulla musica che è all’altezza del cabaret che, nel loro caso, solitamente, la fa da protagonista. È  un po’ come rendersi conto che Elio E Le Storie Tese sono, tra l’altro (ma soprattutto) ottimi musicisti: beh, anche i Camillas dei quali ho avuto in testa tutto il giorno seguente una bella versione di Mi Dai Fastidio.
Gli X-Mary, che assimilo per finalità d’intenti ai loro predecessori, fanno la loro parte di “complesso italiano di musica pop” nella conclusione della Wallace night che è stata una valida Wallace night. Serate così dovrebbero accadere più spesso.

(a cura di Claudia Genocchio e Emiliano Zanotti. Foto live di Giuseppe Rinella)