Nemmeno i Built To Spill sembrano sfuggire al triste rito del tour autocelebrativo, in cui gruppi più o meno affermati mettono in scena sé stessi in gioventù attraverso concerti monotematici che ripropongono album dei tempi d'oro. Prima di loro, fra gli altri, i Melvins tentarono di ringiovanire riportando a spasso Houdini, i Sonic Youth officiarono la propria commemorazione "performing Daydream Nation" e pure gli Slint si riformarono per rifilarci una specie di "Spiderland quindici anni dopo" che faceva più tristezza dei Soliti ignoti rivisti da Amanzio Todini. Certo, l'indie non poteva pretendere di essere immune da questo logica necrofila tipicamente rock, ma nel proporre un prodotto così preconfezionato a uso e consumo dei fan vecchi e nuovi, dimostra una consapevolezza che rasenta pericolosamente il cinismo. Nel nostro caso, tuttavia, pare trattisi di qualcosa di diverso.
In luogo del solito scontato ripescaggio di un album di successo, il sestetto dell'Idaho decide, meritoriamente, di dare una seconda chance a Perfect From Here Now, l'album meno venduto della loro discografia e lo porta in tour attraverso l'Europa, come aveva già fatto per gli Stati Uniti la scorsa estate.
All'Interzona si aspettano il pubblico delle grandi occasioni e non hanno torto: quando gli svizzeri Disco Doom salgono sul palco, all'esterno c'è ancora gente in fila per il biglietto e la platea è abbastanza sguarnita. Sarà anche che il gruppo non è dei più intriganti, col suo indie rock anni '90, onesto, ma così calligrafico da non lascia il segno, né meritare ulteriori commenti: lasciano il posto, senza rimpianti, ai protagonisti della serata.
Nella sala che va facendosi torrida per il calore umano sprigionato dalla gente accalcata, i Built To Spill si presentano col tridente chitarristico, Doug Martsch al centro, basso, batteria e un polistrumentista che si divide fra le testiere e la viola. Incuranti dell'attesa che prende quasi consistenza fisica, i musicisti accordano con calma gli strumenti; poche parole e parte Randy Described Eternity, canzone che apriva il disco che si celebra stasera e la cui scaletta sarà eseguita per intero e nell'ordine. A parte qualche volume da regolare in apertura, tutto gira alla perfezione: i suoni sono ottimi, l'impatto delle diciotto corde crea un muro di suono che rasenta il noise senza mai sommerge la melodia, il tiro della band è buono. Pur trattandosi di un concerto prevalentemente per "adepti ai lavori" del gruppo americano lo spettacolo è estremamente godibile, grazie alle belle melodie che caratterizzano le canzoni e sfociano in lunghe code chitarristiche, che rivelano, sottotraccia, radici ben piantate nell'energico indie dei '90, radici solide che testimoniano come il gruppo abbia ancora ragione di esistere, comporre, suonare.
Dopo poco più di tre quarti d'ora Dough Martsch annuncia l'ultima canzone, suona Untrustable e saluta. Tutti sappiamo che non può finire qui; pochi minuti e sono tutti nuovamente sul palco: è la volta di un inedito, più conciso rispetto alla media dei pezzi ascoltati fino ad ora, un altro pezzo e poi Car, suonata un po' svogliatamente, ma bella comunque; ce ne vuole per rovinare una canzone del genere. Si chiudesse qui, il concerto sarebbe da 8 pieno.
Invece i Built To Spill decidono di strafare e pescando pezzi da tutto il loro repertorio, quasi replicano in durata la prima parte del concerto. Qualcosa però si è rotto, il gruppo è scarico, suona con sufficienza eccessiva: le chitarre, in precedenza così essenziali, si sovrappongono senza costrutto o spariscono improvvisamente e anche i minuti di silenzio spesi ad accordare fra un pezzo e l'altro, che in precedenza si erano sopportati di buon grado, ora diventano ulteriore fonte irritazione. Così, in poco più di quaranta minuti, il gruppo dilapida quasi completamente il vantaggio accumulato nella prima frazione, fino ad attestarsi su una striminzita sufficienza.
Avranno forse gradito i fans di vecchia data, di certo la maggioranza dei presenti, ma per altri si è trattato di un tour de force non da poco, aggravato dal notevole divario qualitativo fra la prima e la seconda parte del concerto. Ed è un vero peccato: per una volta che il tour "a tema" pareva funzionare, ci ritroviamo nuovamente con un po' di amaro in bocca.