Ricordo Henry Rollins sparare in un’intervista che l’influenza del punk su di lui fosse stata nulla rispetto a quella del jazz e dai Black Sabbath; i Moe potrebbero fare tranquillamente loro questa dichiarazione, a parte per il punk: qui c’è anche questo (ma anche nella carriera post Black Flag di mr. Garfield, l’uomo ovviamente lo sapeva benissimo). Il terzetto, che prende la ragione sociale dal cognome della bassista/cantante, arriva dalla Norvegia, è al suo quinto album e per metterlo insieme – ci spiega il comunicato stampa – ha rivolto lo sguardo verso il Giappone, paese di grande ispirazione negli ultimi anni e che si infiltra nella persona di Pain Jerk in alcuni pezzi. Non trattandosi di black metal il dato geografico è inutile per definire l’ambito entro cui il gruppo si muove, ma i primi secondi di Realm Of Refuge, con quel bel basso ruvido e corposo e l’entrata battente delle percussioni ci dicono molto della cultura musicale che ha generato i Moe: questi tre si sono formati durante gli anni ’90 più rumorosi e ci investono con un noise animato da una tensione hardcore accentuata dalla lentezza sabbathiana, una formula magari non nuovissima ma nelle loro mani mortalmente efficace. Pochi gli elementi in gioco: una sezione ritmica che avanza come uno schiacciasassi – notevole il lavoro di Jørgen Træen, già Jaga Jazzist, alla consolle – una chitarra che accompagna diligente salvo prendersi qualche licenza per contorcersi, la voce di Moe sempre in bilico fra supplica e intimidazione; in aggiunta, in alcuni pezzi, il noise del già citato Pain Jerk, delle percussioni, una sega sonora. Examination Of The Eye Of A Horse è un album breve e compatto (sei pezzi in 34 minuti) dove non c’è niente da scartare. Ad eccezione della scheggia punk di Paris si viaggia sempre su andature lente e pesanti seguendo uno schema di forma canzone che strizza l’occhio alla forma aperta (una formula che potrebbe ricordare The Ex e che immagino darà il massimo dal vivo) e dove la voce di Guro Skumsnes Moe getta benzina sul fuoco con sussurri che si caricano di tensione fino ad esplodere in finali convulsi. Nei brani più intensi – Realm Of Refugee disturbata dal noise analogico, Wild Horses che gronda rabbia, Doll’s Eyes, spigolosa e in bilico sul caos – si respira un senso di minaccia che si può solo paragonare a degli Oxbow meno noir o a una Rollins Band più punk, ma i Moe sono dotati di una propria e ben definita personalità, oltre che di una vitalità che ridà linfa a un genere che non credevo potesse ancora suscitare emozioni se non malinconicamente nostalgiche. A completare un quadro già molto riuscito è la bella grafica opera di Lasse Marhaug, che riecheggia un po’ alcune uscite degli Swans su Young God, e il digipack con libretto ciccione con acclusi testi e note. La Wallace (qui in combutta con la ConradSound degli stessi Moe) era un po’ che non la sentivamo: non poteva tornare in modo migliore.