Moe – Examination Of The Eye Of A Horse (Wallace/ConradSound, 2016)

Ricordo Henry Rollins sparare in un’intervista che l’influenza del punk su di lui fosse stata nulla rispetto a quella del jazz e dai Black Sabbath; i Moe potrebbero fare tranquillamente loro questa dichiarazione, a parte per il punk: qui c’è anche questo (ma anche nella carriera post Black Flag di mr. Garfield, l’uomo ovviamente lo sapeva benissimo). Il terzetto, che prende la ragione sociale dal cognome della bassista/cantante, arriva dalla Norvegia, è al suo quinto album e per metterlo insieme – ci spiega il comunicato stampa – ha rivolto lo sguardo verso il Giappone, paese di grande ispirazione negli ultimi anni e che si infiltra nella persona di Pain Jerk in alcuni pezzi. Non trattandosi di black metal il dato geografico è inutile per definire l’ambito entro cui il gruppo si muove, ma i primi secondi di Realm Of Refuge, con quel bel basso ruvido e corposo e l’entrata battente delle percussioni ci dicono molto della cultura musicale che ha generato i Moe: questi tre si sono formati durante gli anni ’90 più rumorosi e ci investono con un noise animato da una tensione hardcore accentuata dalla lentezza sabbathiana, una formula magari non nuovissima ma nelle loro mani mortalmente efficace. Pochi gli elementi in gioco: una sezione ritmica che avanza come uno schiacciasassi – notevole il lavoro di Jørgen Træen, già Jaga Jazzist, alla consolle – una chitarra che accompagna diligente salvo prendersi qualche licenza per contorcersi, la voce di Moe sempre in bilico fra supplica e intimidazione; in aggiunta, in alcuni pezzi, il noise del già citato Pain Jerk, delle percussioni, una sega sonora. Examination Of The Eye Of A Horse è un album breve e compatto (sei pezzi in 34 minuti) dove non c’è niente da scartare. Ad eccezione della scheggia punk di Paris si viaggia sempre su andature lente e pesanti seguendo uno schema di forma canzone che strizza l’occhio alla forma aperta (una formula che potrebbe ricordare The Ex e che immagino darà il massimo dal vivo) e dove la voce di Guro Skumsnes Moe getta benzina sul fuoco con sussurri che si caricano di tensione fino ad esplodere in finali convulsi. Nei brani più intensi – Realm Of Refugee disturbata dal noise analogico, Wild Horses che gronda rabbia, Doll’s Eyes, spigolosa e in bilico sul caos – si respira un senso di minaccia che si può solo paragonare a degli Oxbow meno noir o a una Rollins Band più punk, ma i Moe sono dotati di una propria e ben definita personalità, oltre che di una vitalità che ridà linfa a un genere che non credevo potesse ancora suscitare emozioni se non malinconicamente nostalgiche. A completare un quadro già molto riuscito è la bella grafica opera di Lasse Marhaug, che riecheggia un po’ alcune uscite degli Swans su Young God, e il digipack con libretto ciccione con acclusi testi e note. La Wallace (qui in combutta con la ConradSound degli stessi Moe) era un po’ che non la sentivamo: non poteva tornare in modo migliore.
3 Comments
belllissimo
Decisamente uno dei dischi più belli che mi sia capitato di sentire ultimamente. Me li vedrei assai voletieri dal vivo, devono essere una bomba
tienimi aggiornato qualora si avvicinassero alle coste del mediterraneo