Mi era stato riferito, da fonti attendibili, che sarebbe stato il loro ultimo tour. Mi avevano detto che, almeno una volta nella vita, andavano sentiti dal vivo. Sapevo che era l’unica data italiana. Non avevo troppe alternative, a quanto pare. Così, pur trattandosi di un odioso martedì sera, apertosi oltretutto con una lunga attesa dei ritardatari nel gelido parcheggio del McDonald di Desenzano, armato di buona volontà, mi dirigo verso la città di Romeo e Giulietta per assistere all’esibizione di un altro famoso duo: i Lightning Bolt.
Arrivo davanti all’Interzona con discreto anticipo, mi procuro il biglietto e butto un occhio all’interno: gli americani hanno montato tutta la strumentazione su una bassa pedana posta contro la parete alla sinistra del palco; tutto secondo programma, non avendoli mai visti, in foto e filmati, esibirsi in altro luogo che non fosse il piano terra. Soddisfatta la curiosità vado a rifocillarmi nella pizzeria prospiciente il locale, la cui bufala mi ballerà nello stomaco per tutta la notte; colpa, forse, dell’averla ingoiata quasi intera per presentarmi in orario sul posto, dato che lo spettacolo deve concludersi entro mezzanotte e i gruppi da far suonare sono ben tre.
Stasera, a fare da valletti agli americani sono infatti i romani Zu e gli ormai berlinesi Ovo; ed è proprio Bruno Dorella, in consueta tenuta saio, maschera e All Star, a presentarmisi appena entrato all’Interzona: campanellino alla mano avverte i presenti che il concerto sta per cominciare. Il suono degli Ovo, con un’adeguata amplificazione, non fa percepire la limitatezza dell’organico: solo lui alla batteria, priva oltretutto della grancassa e Stefania Pedretti alla voce, chitarra e talvolta dreadlocks (!) suonati con un archetto da violino (!!) amplificato (!!!). In poco più di mezz’ora i due compiono un’autopsia “a vivo” sul corpo del metal, estrapolando gli elementi più significativi, dalle distorsioni ai ritmi sincopati, fino alle voci malefiche e alla gestualità eroicizzante, per poi ricomporli in forme nuove. Nella loro musica, è evidente soprattutto in contesto live, non c’è ironia, semmai una giocosa serietà nel manipolare e ricomporre gli stilemi del genere, ora in brani black ultraveloci, ora in mantra malati e distorti, al limite fra concerto e performance artistica, fino al punto di violare lo spazio del palco per permettere al batterista, momentaneamente passato al basso, di scendere fra il pubblico a suonare, prima di risalire e partecipare all’apoteosi finale fra pose scultoree e distorsioni impazzite. Metal per le masse. Ci siamo ripresi da poco quando il jazz-doom degli Zu si riversa sulla sala come uno schiacciasassi. Jacopo Battaglia coltiva la sua magrezza sudando una quantità di liquido che, si fosse riversato nell’Adige, avrebbe provocato una disastrosa inondazione, mentre Luca Mai, ieratico come sempre, si spolmona per estrarre suoni dal sax baritono, più simile a un’arma da guerra che a uno strumento musicale. Di raccordo fra i due il basso di Massimo Pupillo, ritornato al suono distorto di qualche tempo fa, forse un po’ monotono, ma ideale per fornire il groove per supportare tale pesantezza sonica. Si aggiungono, in libera uscita dallo studio di registrazione, marchingegni elettronici e campionamenti, maneggiati dal Battaglia, che aggiungono gradita varietà al suono della band. È questa la maggior novità rispetto ai soliti standard, che anticipa il nuovo album in uscita all’inizio del 2009. Sull’ultima nota del terzetto, una disco-music demente irrompe a saturare l’aria. Qualcuno biasima il DJ per la pessima scelta, ma non è lui il colpevole: la musica annuncia l’inizio del concerto dei Lightning Bolt che, presa posizione e “indossati” strumenti, microfono e maschera, partono all’assalto, senza darci un solo secondo di tregua. L’onda umana comincia a muoversi verso la fonte del suono, ma a causa della distanza e dell’assenza del palco non riesco a scorgere i musicisti, né a sentire bene la musica, attutita dalla muraglia umana: in queste condizioni godersi il concerto è impensabile e mi faccio prendere dallo scoramento. Invece, appena la musica sale di giri, l’onda si trasforma in vortice e la maggior mobilità consente, con un minimo di destrezza, di guadagnare le posizioni di testa. Il gorgo umano, a suo modo, è democratico e concede a tutti la possibilità di ottenere uno spazio decente. Così, piano piano, dai pertugi che si aprono nella bolgia di teste e braccia avvinghiate in un grottesco valzer omoerotico (perché, diciamocelo, di ragazze che abbiano voglia di strusciarsi in mezzo a questi scalmanati ce ne sono purtroppo pochine) riesco ad adocchiare le figure di Brian Gibson, sulla sinistra, basso e espressione vagamente ebete e Brian Chippendale, batteria e maschera multicolore. Lui in particolare, già impegnato a percuotere le pelli e cantare, col microfono infilato praticamente in gola, è quello che deve resistere al maggior numero di assalti, particolarmente veementi nel suo settore. A queste latitudini il suono è indistinguibile dal movimento, l’uno genera l’altro e ne è a sua volta generato, l’agitarsi per i ritmi forsennati e il lottare per lo spazio vitale o per non franare addosso alla batteria sono tutt’uno. È a questo punto, quando da una ventina di minuti tengo con onore un’invidiabile posizione rischiando di rimanere sfregiato ad ogni colpo di Chippendale sul timpano, che un’involontaria ma ben assestata spallata mi accartoccia gli occhiali, inducendomi ad un ordinato ripiegamento nelle retrovie. Dal gioioso amarcord della mia adolescenza sono ricacciato non al presente, bensì all’orrenda visione dei miei settantacinque anni: fuori dalla ressa non sto praticamente in piedi, sono sudato come dopo una partita di calcio giocata in pelliccia e assetato come un reduce di El Alamein. Striscio fino al bar, prendo una bottiglietta d’acqua, mi approprio di uno sgabello e mi preparo ad assistere al resto del concerto dal fondo della sala. Da qui l’impressione che si ha è completamente diversa. Sarà che il muro umano impalla la potenza degli amplificatori posti rasoterra, fatto sta che da lontano i Lightning Bolt non si differenziano troppo dai tanti, buoni gruppi di musica selvaggia e strumentale che si sentono in giro. Certo, il basso hendrixiano e la batteria ipercinetica fanno effetto anche da qui, ma dopo aver sperimentato la bolgia, l’impressione è di qualcosa di un po’ vuoto, di una bomba disinnescata. La dura realtà è che il concerto vero si svolge nell’esiguo spazio fra i musicisti e la prima fila: l’onda sonica si trasmette direttamente alle viscere del pubblico più prossimo che, come una scarica, la passa a quelli a stretto contatto e così via, per cerchi concentrici, fino ad esaurirsi ai margini dell’assembramento. Tutto quello che avviene e si sente oltre, è semplice riflesso.
Chi c’era sa. Per tutti gli altri è troppo tardi.
Io non t’ho visto, t’ho vissuto. (cit.)