Il programma del Villaggio Vacanze medio, secondo una ricerca francese, prevede un cartellone di eventi di qualità, un accesso pressocchè continuo al portafoglio del cliente, clima umidiccio tendente alla pioggia, caffè praticamente decaffeinato e tanti francesi. In Bretagna, dopo un viaggio della speranza di venti ore stipati in un furgone a GPL, siamo andati a vedere cos'è che fa muovere alcune migliaia di cugini d'Oltralpe ogni anno, da diciotto che lui ne ha. Probabilmente mi aspettavo un carrozzone più ludico/circense, alla Reading per intenderci, da un festival che compie la maturità nel corrente 2008. Deve essere per questo che mi ha un po' stupito la formula di una dimensione relativamente contenuta; per chi ci andò si parla di uno spazio poco più grande di quello che, qualche anno fa, ospitò Rockaforte nei pressi di Verona. Molto intelligente la soluzione di non puntare, evidentemente, al pubblico da stadio di nomi gigantostratosferici ma costruire, con cervello, una quantità di presenze garantita dal meglio degli act, al momento, in tour europeo. Con qualche esclusiva. Partito con il miraggio di vedere dal vivo, a poche settimane dalla mia personale scoperta, gruppi come The War On Drugs, The Dodos e Centenaire, tanto quanto attirato da nomi che ancora del tutto non mi hanno convinto come Fuck Buttons, No Age e Nina Nastasia, mi sono messo di buona lena e ho tirato su una compagnia che non citerò oltre per non scadere nell'effetto diario di bordo. Fatto sta che, alla fine, non ho visto nessuno di quei gruppi per cui mi ero mosso. Mi brucia? Si vede che non doveva essere e, a questo punto, mi riprometto di andare a pescarli chissà dove e chissà quando. Se il destino permetterà ancora una tale congiuntura favorevole. La mia vacanza è stata resa, in realtà, più digeribile dalla presenza di nomi la cui prova da sotto il palco mi mancava come Why? o Breeders, da alcuni fortunati outsider e qualche insperata conferma, Windsor For The Derby su tutti.
Sotto le peggiori maledizioni per un sistema di biglietti un po' complesso, non siamo riusciti ad abbonarci a tutti gli eventi con il pass unico e abbiamo così dovuto pagare qualche euro in più per goderci gli spettacoli scelti, abbiamo attaccato la fortezza di Saint-Pere sulle prime note dei Tindersticks. Spettacolo forse troppo raccolto per un megapalco il loro, arrangiamenti orchestrali che risultano forse oltremodo omogenei e finiscono per inficiare le belle composizioni dell'ormai storico gruppo. Pochi minuti per ambientarsi nella piazza d'armi, incominciare a capire come funzionerà la questione cibo e bevande ed ecco salire sul palco le Breeders. La stanchezza del viaggio passa in secondo piano e l'energico live delle sorelle Deal illumina la serata. A dirla tutta Kelley e Kim sono a tratti imbarazzanti. Due armadi a quattro ante a testa, molto insicure sulle chitarre, a fronte di una sezione ritmica perfetta e una terza chitarrista che sostiene la baracca ogni qualvolta si aggiunge a bordo palco. Lo spettacolo è tutto nelle canzoni. Una serie di hit che ci riportano a quando le melodie di quel giro fecero piazza pulita del grunge nei mixtape di metà anni '90. Ovviamente Cannonball, impossibile non citarla, svetta: pubblico in delirio, crowdsurfing che neanche al Lollapalooza, cori urlati in migliaia e felicità collettiva. Non saranno certo ricordate tra gli Unsung Heroes della Storia della Musica alla voce Chitarre, le due gemelle, ma sotto quella Cori e Voci si. La forza delle loro canzoni vive tutta lì: puoi non ascoltare i loro dischi per anni e poi trovarti in mezzo ad alcune migliaia di persone ricordandoti nota per nota le loro linee vocali. Dopodichè i Cold War Kids falliscono miseramente nel cercare di costruire un ponte tra l'indierock orchestral-chitarroso, vagamente reminescente dei Sixties, in voga oggi con un pop edulcorato alla Coldplay. Le code per mangiare si fanno insostenibili, prova evidente che il pubblico non risponde alla loro richiesta d'attenzione falsamente giovane. Bocciatissimi. Poi il miracolo che non t'aspetti. Squallidamente, da me, considerati come l'ennesimo clone di Maximo Park o figli del Brit Rock, o come lo si definisca oggi non so, da classifica, salgono sul palco i Foals. – Un pezzo per sentire come sono – ci diciamo; e finiamo per rimanere a ballare (!) tutto il concerto. Bravi, senza sbavature, molto suonati, pestoni ma con gusto e cassa dritta senza pensieri. Una versione molto, ma molto, ripulita dei Battles: ma se tutta la scena Elettro-Rock si nutrisse delle loro stesse pulsioni prive di fronzoli avremmo meno Ting Tings (cfr. più avanti) e più gruppi degni di nota.
Il secondo giorno, oltre a noie varie, ci scontriamo con la dura realtà dell'ubicazione, bella ma sciamannata, degli altri palchi. Non sono personalmente riuscito a vedere quello gratis, sulla spiaggia, organizzato dalla Fnac, ma le tempistiche per muoversi dal campeggio/parcheggio libero (a proposito decisamente un voto in più per le condizioni generali della proposta accomodation per indie-scout) fino al centro, con la navetta bus del festival o con i propri mezzi, ci sono state sempre molto strette. Al ritorno perderemo i No Age, di cui sentiremo il probabile ultimo colpo di cassa mentre torniamo al Forte, ma dei Bowerbirds, nello spledido teatro del Casinò ci perdiamo mezzo concerto. Quel che abbiamo visto mi ha ispirato parecchio. Seppur privi del violinista, non si conosce il motivo della momentanea defezione, i due, lui e lei, regalano emozioni con il loro folk-pop così intimo da far spavento. Roba per spiriti fragili, eh! Fisarmonica, chitarrino e grancassa a far da contraltare alle due belle voci. Le canzoni piacciono e il teatro risponde bene, si vede e si sente perfettamente: un tripudio di nenie alla Damon & Naomi, nelle giornate in cui si ricordano di svegliarsi allegri. A seguire Micah P. Hinson, altro grande e infelice ospite della mia personale playlist delle dimenticanze. Mai seguito granchè, all'urlo snob di – M.Ward mi piace di più -, stasera il texano decide di tirare giù le pareti. Completo elegante, scarpe da ginnastica da ritardato, occhialoni in punta di naso come il miglior Elvis Costello e uno zainetto che ci mancava solo fosse Invicta tanto era imbarazzante. Poi attacca e, a parte l'inno alla chitarra pescato da un vecchio disco, mi entra dalle orecchie e arriva dritto al cuore. Un po' di retorica per definire quest'animo fragile che, lui alla chitarra e il suo amico alla batteria, un po' di pedal steel e xylophono, mette in scena tutta la sua grazia. Schiaffoni di bravura al pubblico, estasiato, che va in visibilio. Plauso anche alla scenografia di luce che cattura l'attenzione senza mai essere invasiva. In seguito la fuga fuori, il recupero del furgone in periferia, la corsa verso il camping e la conseguente ennesima mancanza citata pocanzi.
La serata, peraltro, rimanda ancora l'elettricità della prima notte: noi, più scaltri, ci ripariamo dal vento, che chiude una giornata di sole, in mezzo al pubblico e lì, l'insperato momento di illuminazione. Why? tira fuori dal cappello un concerto memorabile. Ai livelli di un Beck in miniatura che ha, come highlight, arrangiamenti inconsueti dei, già di per loro bizarri, pezzi. Poteva essere un campionatore con lui che canta e, invece, in quattro si spartiscono due mezze batterie, basso, chitarra e tastiere. Ma, soprattutto, le voci. I campionamenti elettronici, cui ci ha abituato da tempo il ragazzo, sono qui cantati. Batterista e tastierista cantano i loop. Ridendo sotto i baffi. Concerto enorme, dicevamo. Brani dai dischi, qualche chicca, il tramonto in Bretagna, un pubblico vivo che interagisce con gli artisti. Se c'è un momento che conserverò del festival è questo. I curse the last six month I've been hiding behind a moustache, frase per frase divento quindicenne fan e mi rendo conto di aver esagerato con gli ascolti degli ultimi due dischi dell'ormai ensemble americano. Bravissimi, Il resto della serata non potrà essere all'altezza. Non sono mai stato un fan dei Notwist, che ce la mettono tutta con uno show eccessivamente sopra le righe, dai controller del Nintendo WII ostentati dal tastierista agli assoli finali: hanno si alcune belle canzoni, del vecchio disco peraltro, ma l'arrangiamento tradisce fino in fondo le aspettative di rock da stadio del gruppo; poca elettronica, tanto chitarrone fine a se stesso neanche stessimo di fronte agli Afterhours teutonici. Non ero un fan e non mi hanno conquistato neanche questa volta. Seguono i Sigur Ros. Dopo una breve incursione da piccoli hacker nella loro rete wi-fi interna grazie ad uno di quegli Ipod con connessione senza fili (cambiate password babbazzi), salgono sul palco in un giubileo di vestiario buffo e sonorità a tratti incomprensibili. Come a rispondere alla mia domanda di riconferma o recupero, attaccano con Svefn-G-Englar, – It's You u u – per noi comuni mortali: con una pessima versione dal vivo di questo brano li abbandonai per sempre sul palco dell'All Tomorrow's Party del 2000, con lo stesso pezzo se la giocano per riconquistarmi. Questa volta riescono, almeno, a portarlo in fondo, ma lo affossano subito con un altro classico, neanche si potessero permettere certe dinamiche da rockstar. Per me han dato, vado a mangiare e me li godo da lontano. Che poi sul godere, potrei dire di aver goduto di più a mangiarmi il mio cartoccio di Tartiflette, mentre gli islandesi, imperterriti, portano a conclusione il loro set da headliner del festival: dopo alcune decine di minuti di archettate su chitarre, synth senza attacco, batteria suonata con le pantofole e simpatia lasciata nel camerino il verdetto è scritto: non mi hanno convinto neanche questa volta e, fosse per me, i loro dischi rimarrano sugli scaffali dei negozi e non arriveranno più su quelli di casa mia. Nota a parte per il singolo col video nude look, bello, peccato che sia un pezzo degli Animal Collective piuttosto che loro e che sia stata la instant cover del viaggio: pochi colpi di mano sul cruscotto e via nel tribalismo vocale del pezzo come una manica di deficienti. Polemiche a parte si sente odore di sorpresa nell'aria quando salgono sul palco, ripulito dai palloni aereostatici e dai coriandoli stile Flaming Lips mollati dagli isolani, i Pivot. Incredibili! Freschi di disco su Warp non ne so molto altro se non che hanno messo su un live tesissimo e ruvidissimo, greve di riferimenti ai migliori Trans Am, a dei Battles senza intellettualismi, di pancia e calci e non di battute e vocine. Battiti nel vero senso della parola. Cattivissimi. Il successivo Adam Kesher ci deve essere, a quel punto, sfuggito…
Ultimo giorno e la pentola di muscoli alla marinara e patatine fritte ci permette di arrivare a goderci il concerto a teatro in tempo. Il live del cantautore newyorchese Phosphorescent, su Dead Oceans come i Bowerbirds il giorno prima, ci apre il pomeriggio. Perfetto nel suo linguaggio tradizionale: voce, jeans e una chitarra. Bravissimo nel creare quella tensione che i deflagranti Windsor For The Derby rilasciano nella loro ora di musica. Visioni di Post Rock che torna da dove era venuto: quel clash impronunciabile di shoegaze, krautrock e tradizione psichedelica. Degli Spacemen3 illuminati, carichi, spinti oltre tutti i limiti del genere a comporre un canzoniere di tutto rispetto. Anni luce più avanti rispetto ai barocchismi dei nuovi tradizionali contemporanei Wilco, il gruppo mette in scena tutta la propria voglia di stupire. Eccezionali. Una conferma rispetto a quel concerto, secoli fa, al Covo di Bologna. Tra i gruppi meno considerati di sempre. Tra i migliori, da sempre. Li attendo alla prova del disco nuovo, uscito da non molto, sebbene il live sia, certamente, la loro dimensione d'elezione. Solite corse e dei Menomena sul palco principale vediamo una manciata di pezzi, non abbastanza per farmene un'idea, rimandati all'ascolto di qualche disco. Il resto del sabato viene citato solo per dovere di cronaca. Una delusione dietro l'altra e nessun sussulto. Non ci si stupisce della pochezza dei Ting Tings, riusciti al terzo tentativo a sfondare, ma pressocchè nulli sul palco. Lei è carina, una Debbie Harry moderna anzichenò, ma poi? Un abbecedario del già sentito in cassa dritta. Girls in Hawaii decisamente poco incisivi, vale il discorso dei Notwist cambiando la provenienza teutonica con belga. Indifferenti i French Cowboys, inutili i Pony Hoax. La terza giornata, si sapeva, non prometteva granchè. Torniamo in tenda con la consapevolezza che il meglio era già stato ampiamente dato e che il festival aveva raggiunto un voto decisamente alto non certo grazie alla scelta, più, supponiamo, popolare, della lineup di questa giornata. Ultima citazione di corollario per la pulizia dell'area: con un trucco spilla soldi per un euro ti danno un bicchiere di plastica vergato esclusivamente per la Route Du Rock. Con dei talloncini da 2,50€ ti danno da bere birra, vino o sidro nel tuo gobelet. Così pochissimi abbandonano il bicchiere. E non rischi, a fine serata, di camminare, come in molti altri festival giovani, in un mare di plastica. Una soluzione da provare anche in Italia.
In conclusione, dopo le ventiquattro ore del viaggio di ritorno, posso tranquillamente rendere conto di un festival che merita lo sbattimento, dai costi contenuti, dalle strutture efficienti e pronte ad affrontare gli imprevisti. Pochi consigli ulteriori: prenotate on line per tempo gli abbonamenti! Non mettetevi alla guida dopo aver bevuto, ci hanno controllato una infinità di volte, anche alle nove del mattino e la coda dei fermati era decisamente lunga. Fidatevi degli orari, incredibilmente sono svizzeri e maniacali nella precisione dei cambi palco, fin troppo lunghi. Pregate di non essere vegetariani, non c'è grande scelta all'interno della fortezza.Il clima è quello che è, in Bretagna, anche a Ferragosto. La quantità di italiani è minima (una quindicina al massimo quelli riconosciuti, di cui undici, per amor di patria va sottolineato, genovesi): il vostro snob-o-metro può andare sul tranquillo. Complimenti all'organizzazione e alla direzione artistica. Il prossimo anno? Quale miglior asserzione finale di un promozionale – Prenderemo in considerazione l'ipotesi di bissare! – ?
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