Il Muviments fa otto, una cifra importante, che la dice lunga sulla continuità dell’impegno e sulla dedizione che ragazzi dell’associazione Ca.Ga mettono nell’organizzazione del festival. Per noi invece è il secondo anno di presenza ed è quindi l’edizione a cui, dopo l’entusiasmo della prima volta, chiediamo la sempre difficile conferma. Le premesse sono comunque buone: anche quest’anno la scaletta è invitante, varia e di qualità, e ci dà la possibilità di verificare dal vivo le capacità di molti dei progetti di cui avevamo parlato negli scorsi mesi.
Scendere a Itri ha sempre un significato particolare, che va ben oltre la questione meramente musicale; d’altra parte, già il fatto che il festival conceda spazio a diverse forme d’espressione, dalle performance, alle esposizioni artistiche, dai fumetti alla pittura, in un clima disteso e rilassato, dà un senso di apertura che fa del Muviments un credibile corrispondente invernale del No Fest. Oltre a ciò che il programma propone, è infatti possibile integrare con percorsi culturali (la zona è ricca di testimonianze storiche risalenti all’età romana e oltre) e gastronomici, opzione che sfrutteremo senza risparmiarci, nelle imprescindibili soste Al Coccio e alla Pizzeria Da Palmira. Ebbene sì, ammettiamo di aver passato a tavola buona parte del tempo intercorso fra il nostro arrivo e l’inizio del festival; ora, alleggeritaci la coscienza, possiamo passare a parlare della prima serata. Anche quest’anno ogni ambiente del castello è stato sfruttato, dando spazio a varie forme d’espressione: una performance che non sarebbe dispiaciuta a David Lynch nella stanza più in alto (Altrove, a cura di Francesca Colavolpe e Ilaria Tortoriello), una serie di disegni che invece avrebbe esaltato i Carcass in quella inferiore (a cura di Del Nero Molle), la mostra di tre fumettiste (Elena Rapa, Silvia Rocchi, Marina Girardi) lungo le rampe a spirale della Torre del Coccodrillo, una performance musicale ispirata alla morte di Nikola Tesla (Room 3327) piano seminterrato, dove è anche ospitata una disturbante ed enigmatica esposizione di volti in gesso (anche questa opera di Del Nero Molle). Sono tutte cose che, oltre al valore intrinseco, danno la possibilità di visitare i luoghi più reconditi del castello e di occupare gli spazi fra un concerto e l’altro in modo non banale. Gli spazi dedicati alla musica sono stati organizzati secondo la formula che aveva dato buoni risultati gli anni precedenti: ai set più rock viene riservato il palco principale, alle one man band la saletta adiacente, alternando l’utilizzo in modo da ridurre al minimo i tempi morti.
L’onore di inaugurare il Muviments tocca quest’anno ai veneti White Mega Giant, ed è subito una sorpresa: li avevamo conosciuti come gruppo dedito a un post-rock classico, per quanto ben fatto, li ritroviamo spaventosamente incupiti, a tratti quasi funerei, perfettamente calati in questa nuova forma che, almeno nello spirito, possiamo tranquillamente definire doom. Sacrificando sempre più spesso l’epica dei crescendo a orchestrazioni più scarne e minimali, col piano elettrico che frequentemente si sostituisce alla chitarra, il terzetto dà vita a un concerto dai toni drammatici ma mai oppressivi, ben congegnato nell’alternare momenti trascinanti ad altri più riflessivi. Un ottimo inizio. Chiusa questa esibizione ci si trasferisce nella più ridotta noise ambient room, dove Ottaven ci intrattiene con un set di noise ritmico, lineare, d’effetto e saggiamente breve, a scongiurare ogni possibile segno di noia. Già nel pomeriggio ci era stata annunciata la defezione degli Shipwreck Bag Show, causa influenza di Roberto Bertacchini: peccato, era uno dei gruppi che più attendevamo; a sostituirli è, nei panni di ?Alos, Stefania Pedretti. In questa occasione si inaugura una pratica che si ripeterà diverse volte nel corso delle serate: in concomitanza col concerto, un artista si ispirerà alla musica per realizzare un’opera, la cui genesi verrà ripresa e proiettata in diretta su una delle pareti della sala. A rompere il ghiaccio non poteva essere che Rocco Lombardi, che realizza, nel suo peculiare stile graffiato bianco su nero, una minacciosa e adattissima (non ce ne voglia la musicista) arpia. Venendo al lato musicale della faccenda, la signorina ?Alos inizia con voce e chitarra, stridori e drone, e la cosa ha un po’ il sapore degli Ovo senza le percussioni, nulla di male ma nemmeno troppo memorabile, mentre il seguito, più performativo con voce (in spagnolo), campanellini, campanacci e contorsioni su e soprattutto giù dal palco, lascia decisamente il segno. È in questa occasione che notiamo una cosa che forse avevamo già riferito lo scorso anno, ma che ogni volta ci sorprende: il pubblico, gente di ogni tipo e estrazione, segue le esibizioni, anche le più ostiche, in silenzio, con attenzione e curiosità. Davvero un bel vedere. Nel gioco a rimbalzare fra una sala e l’altra è ora il turno di Alberto Boccardi e delle sue macchine. Abbandonata la chitarra e delegato il suono a campionamenti vari, il musicista mette in scena un set vario e d’atmosfera, che passa da ritmi lenti e riverberati a circolarità dal sapore minimalista, fino a parti più free, sempre calibrando con attenzione rumori/musica e silenzio. Il set è forse leggermente lungo, ma onestamente non avremmo saputo cosa sacrificare: di certo non la parte centrale, più melodica e altamente coinvolgente. Il finale di serata ha i colori sgargianti, i costumi arabeggianti e i ritmi rilassati della musica di Al Doum And The Faryds. La rilassatezza è forse anche eccessiva, un po’ di dinamica non guasterebbe, tanto più che il genere proposto, jazz etno-folk psichedelico al sapore speziato d’oriente è genere oggigiorno assai abusato, e un po’ di verve per distinguersi non guasterebbe. La maggior parte del pubblico dimostra comunque di gradire, per cui bene così. Si chiude con l’immancabile Dj set (alla consolle Daniele Cavaliere) e poi si va a nanna: fra una cosa e l’altra, si sono fatte le quattro.
La mattina dopo inizia inevitabilmente tardi, ma c’è almeno il tempo per godere di una temperatura primaverile e di un cielo terso che invitano, almeno nello zone soleggiate, a girare in maglietta. Si pranza a I Miserabili (altro locale da tenere d’occhio, con un rapporto qualità/quantità-prezzo impareggiabile) e poi si sale al castello: il sabato il cartellone è ricco e si comincia presto. In programma, prima dei concerti, c’è un workshop di illustrazione e progettazione di fanzine a cura di Mr. Mango e di seguito un breve incontro con le disegnatrici le cui opere sono in mostra alla Torre del Coccodrillo. A fare da anello di congiunzione fra immagini e musica è Ci Sono Notti Che Non Accadono Mai, performance con disegni dal vivo e letture di poesie di Alda Merini a cura di Sandra Cervone e dell’associazione letteraria Decomporre. Le cose si protraggono un po’ oltre l’orario previsto e i concerti subiscono qualche variazione. Invece dei due set previsti, a fare da colonna sonora all’aperitivo è solo il misterioso Mai Mai Mai, look da membro del Ku Klux Klan caduto nel caffelatte e elettronica fra drone e ritmi, ben fatta e trascinante. Intanto il pubblico si fa sempre più numeroso, questa sera l’affluenza sarà davvero notevole e fin dalle prime esibizioni le sale sono stipate. A dare il via ai concerti sul palco principale ci pensano i Jealousy Party, anche se in effetti si esibiscano giù dallo stage, circondati dai presenti. In duo, musiche elettroniche di WJ Meatball, voce e balletti di Mat Pogo, fanno quello che gli riesce meglio, jazz-free-funk spigolossissimo, con scat vocali e “dio bono” a profusione. Gli abbiamo visti diverse volte dal vivo e sempre con piacere, ma questa sera sono decisamente in forma e si esprimono su livelli altissimi: solo apparentemente divertenti, mettono in scena una rappresentazione poco rassicurante, sempre in bilico fra farsa e tragedia, a tratti anche sgradevole nel suo volontario spasticismo. Parafrasando Ennio Flaiano, potremmo dire che la loro musica è drammatica, ma non seria: una delle migliori rappresentazioni che l’attuale periodo storico possa avere. Sala grande, corridoio, sala piccola: tocca a Der Cavalinha, progetto che punta alla convivenza fra musica e pittura di Xabier Iriondo e Valentina Chiappini. Onestamente è una delle cose meno memorabili del festival: lui mette in scena il suo consueto concerto solista, Mahai Metak suonato con batticarne, pennelli e biglie, lei, con tecniche altrettanto miste, dipinge, graffia e serigrafa una tela, ma le due azioni artistiche non entrano mai in comunione, se non per brevi momenti, e tutto rimane un po’ fine a sé stesso. I cambi di programma di cui dicevamo sopra, portano Paolo Cantù, alias Makhno, a guadagnare il palco principale. Ritagliatosi un angolo sullo stage già allestito per i Fuzz Orchestra, lo riempie di tutto ciò che gli serve: due chitarre, i pedali degli effetti e sé stesso; poi si parte per un concerto breve e intensissimo – col pubblico accalcato intorno, in uno scambio continuo di energia – fra voci vere e campionate (Zena, Ulrike, Father And Son), ritmi sintetici e chitarre lancinanti. Non per un attimo si avverte l’assenza di una backing band, anzi, ciò favorisce un rapporto ancor più diretto fra pubblico e musicista: un esempio di quell’individualismo positivo che già caratterizzava l’album e che dal vivo trova la sua ideale dimensione. Si finisce, com’è giusto che sia, con Custer, per metà cantata e per metà lasciata alla voce registrata di Federico Ciappini, mentre Cantù, smontate rapidamente le attrezzature, riordina cavi ed effetti e sulle ultime note del pezzo ringrazia e saluta, lasciando tutto in ordine, come se nulla fosse successo. Chi c’era sa che non è così. A questo punto abbiamo elementi sufficienti per capire che questa è una serata che non ci lascerà un attimo di respiro e a dare superflua ma graditissima conferma sono i Fuzz Orchestra. Anche con una trasferta settecento chilometri alle spalle, qui giocano in casa: la sala è stipata, l’aria elettrica e loro pronti a suonare senza farsi scrupoli di sorta. La scaletta è incentrata sul nuovo album; in sede di recensione avevamo parlato di un disco con maggiori sfumature e aperture jazz, ma oggi non è serata, c’è da fare sul serio, “alzo a battua zero e fuoco a volontà”. Intervallate dagli inchini di ringraziamento dei musicisti La Proprietà, In Verità Vi Dico, Marmo Rosso Sangue, Alzati e Uccidi si susseguono rapidissime: la sala salta per aria, fra accenni di pogo, tentativi di sing along e mani in aria a mimare il gesto della P38. La cavalcata di Morire Per La Patria sigilla un concerto che ricorderemo a lungo. A questo punto è benedetta l’esibizione di Maurizio Abate, spostato per via dei ritardi dall’ora dell’aperitivo a quella dell’amaro. Nella piccola ambient noise room, seduto con la sua ghironda supereffettata e l’armonica, satura lo spazio con un drone continuo e mutevole che trasfigura il suono originale degli strumenti. Poi verso la fine tutto si sfalda, la ghironda è suonata in maniera meno ortodossa, agendo direttamente sulle corde e paradossalmente rivela così la sua natura. Si chiude con voci campionate e suoni elettronici in crescendo, giusto a ricordarci che non è ancora il momento di tirare il fiato. A chiudere il festival, almeno dal lato concertistico, non poteva che essere il duo ?Alos/Xabier Iriondo, uscito proprio quest’anno con un album per la locale Brigadisco. Come avevamo intuito ascoltando il disco, quello live è il contesto ideale per questo progetto; non che si lascino andare a particolari teatralità, tutt’altro, ma le composizioni diventano ancora più vive e godibili, intense. L’esibizione è in perfetto equilibrio fra concerto rock e drammatizzazioni teatrali, così come perfetta è l’interazione fra i due artisti: ?Alos concentrata sui testi recitati, cantati, urlati, sfoggia, in alcuni passaggi, doti di dizione notevoli; Iriondo, dividendosi fra basso, Mahi Metak e un incredibile Melobar Powerslide rivestita in cuoio, dà il meglio di sé mettendosi al servizio della voce, ma sa ritagliarsi spazi espressivi indispensabili alla riuscita dell’esibizione. È anzi spesso lui a dare corpo alle parole, a volte stando immobile per tutto il brano, altre muovendosi invasato, quasi posseduto, nei momenti di maggior veemenza. E si arriva così ai titoli di coda, che scorrono sulle note della techno di Gigi Galli e Alessandro Signore, maestri di cerimonia del DJ set che chiude il Muviments 2012. Gente che ne ha viste parecchie parla di edizione migliore di sempre. Non stentiamo a crederci. Da parte nostra, possiamo dire di che si è andati ben oltre la semplice conferma che cercavamo: il cartellone era di livello, ma i gruppi, anche quelli che già conoscevamo, hanno reso su livelli inattesi. Sarà merito dell’organizzazione, sarà l’aria buona, sarà il cibo… L’anno prossimo cosa possiamo chiedere di più?
(Foto di Mr. Bedroom)