È sempre una cattiva idea andare alla ricerca degli amori passati: li si trova diversi, invecchiati; oppure ancora radiosi, ma insieme a qualcuno che certamente non ci piacerà e inevitabilmente si è assaliti da ricordi e rimpianti. Per questo, non ho mai prestato molta attenzione alle carriere degli ex Cop Shoot Cop dopo lo scioglimento: troppo grande l’amore e troppo evidentemente frutto di una rara alchimia la grandezza del gruppo per pensare che un solo uomo potesse ricrearne la magia. Ma quando Tod Ashley, che dei newyorchesi era l’anima noir e letteraria, si trova ad esibirsi coi suoi Firewater a pochi chilometri da casa, capisco subito che resistere sarebbe vano: accetto il rischio e vado.
Sorvolando sul comunicato stampa che citava come possibili paragoni Capossela e Bregović, cosa che, fosse stata vera, mi avrebbe fatto girare ben più che alla larga, mettiamo subito in chiaro una cosa: solo Tod A può permettersi di propinarmi oltre un’ora di musica etnica e ritmi in levare senza rischiare una scarica di piombo alle spalle. Può perché con quella voce lo ascolterei anche se cantasse l’intero repertorio della Pausini e può perché in certi momenti e in molte strofe si possono legge elementi che già erano in nuce nel repertorio del suo precedente gruppo, attimi fugaci ed impagabili, che diventano ancora più evidenti durante l’esibizione live.
Tuttavia, poiché la prova ha da essere dura, la mia fede è subito messa alla prova dal brano d’apertura, un lungo strumentale etno jazz, molto etno, che ritarda di qualche minuto il mio calarmi nella realtà del concerto. Ho così modo di osservare l’eterogenea formazione, che annovera un bassista israeliano dall’espressione assai inquietante, un trombonista identico a Enrico Beruschi, un batterista del giro della New York ebraica, il secondo chitarrista in stile Al Pacino e un percussionista che sembra prelevato di peso dalla crew dei Flaminio Maphia; al centro Ashley, camicia a righe, pantaloni gessati e chitarra che, decisamente di buon umore, inizi lamentandosi scherzosamente delle luci sparategli in faccia e nel corso della serata interagirà spesso col pubblico, senza mai scadere nella gigioneria a buon mercato. Quando si inizia veramente ci troviamo davanti una Strange Reaction, dal primo album, che implode di fiati e percussioni, decisamente snaturata dal suo non felicissimo riarrangiamento. Ma oramai la cifra stilistica del gruppo è questa, rock etnico e poliritmico non privo di qualche ruvidezza, c’è da farsene una ragione. Il prosieguo del concerto, incentrata sul recente The Golden Hour, ottime canzoni scritte per essere suonate con una formazione di questo tipo, avvalorerà questa tesi. Scorrono quindi le crooneristiche Electric city e Six Fourty Five o le più festaiole Borneo e Hey Clown, ma la realtà è che dove finisca il noir ed inizi la festa non è poi così chiaro, tanto è l’amalgama del gruppo e la capacità di scrittura che Ashley ha acquisito nel periodo in cui ha portato la sua anima di noiser newyorkese ad ibridarsi coi suoni dell’Asia e dei Caraibi. La distinzione è invece più chiara sotto il palco, dove a destra i nuovi fan, sensibili alle battute in levare, danzano gioiosamente mentre a sinistra, quelli di più lungo corso, reagiscono ai ritmi lenti e seguono con maggior senso del dramma. Io, ovviamente, sono con quest’ultimi, in quanto “vecchia guardia” e in quanto “culo di pietra”. Nessuno, comunque, è fuori posto e la serata, con mio grande sollievo, veleggia lontana dal pastrocchio etnico in stile Manu Chao o dalle insulsaggini zingaro-circensi alla Gogol Bordello.
Already Gone, con le sue percussioni e i suoi urli, fa aleggiare per prima lo spettro dei Cop Shoot Cop di Ask Questions Later, ma un po’ tutte le volte che Flaminio Maphia imbraccia il tamburo e Beruschi da’ fiato al trombone, mi viene un tuffo al cuore: 10 Dollars Bill e Got No Soul sono dietro l’angolo. Si tratta tuttavia di un attimo, non è serata per nostalgie questa e si va avanti per quasi un’ora prima che il gruppo saluti, scenda e fra applausi e richieste di bis e ritorni per il gran finale; un rituale ormai abusato a cui ci prestiamo di buon grado. Si riparte con un nuovo strumentale, poi è la volta di Three Legged Dog e This Is My Life, forse gli esempi più lampanti di come lo spirito nero e il sarcasmo di Ashley sappiano incarnarsi in una musica gioiosa, come se in giro per il mondo avesse scoperto un segreto che a noi ancora sfugge. E così si chiude. È andata bene tutto sommato, solo qualche piccola ricaduta nostalgica, ma si guarda avanti. Ashley è perfettamente calato nel suo nuovo ruolo di menestrello world music ed evidentemente perfettamente credibile, se sa coinvolgere con tanta foga gente abituata a musicisti che, in questo ambito, possiedono credenziali ben maggiori delle sue. Me ne esco, con la consapevolezza che il prossimo concerto in levare a cui assisterò sarà quando i Firewater ripasseranno da queste parti.
(Foto di Milvia)