A me queste cose commuovono, c’è poco da fare. Vedere uno dei tuoi eroi di gioventù arrivare su un van nella periferia di una delle nostre città in un giorno di metà settimana, salire sul palco, consumarsi le dita e sgolarsi per un’ora e poi scendere ad attaccare discorso coi presenti prima di infilarsi dietro al banchetto dei dischi, riconcilia con la musica e un po’ anche col mondo. Per via di queste cose e di altre che leggerete, è chiaro che le righe che seguono non potranno mai essere una fredda e imparziale recensione del concerto degli Eagle Twin al Colorificio Kroen di Verona. E, onestamente, nemmeno vogliono esserlo; oggi va così.
Al 10 di ottobre l’autunno non ha ancora fatto sentire il suo alito freddo e addirittura all’interno del locale è ancora estate: si sta tranquillamente in maglietta in attesa che la musica faccia ulteriormente salire la temperatura. La gente arriva alla spicciolata, ma fin da subito è evidente che le presenze sono superiori a quelle che mi sarei aspettato: la cooptazione degli Eagle Twin da parte del giro stoner, abbastanza (se non del tutto) ingiustificata, dà i suoi frutti ed è un bene. D’altra parte nel pre-concerto capto, oltre agli ovvi Sleep, nomi come quello dei Blue Cheer, segno che i nostri siano percepiti, non a torto, come eredi di certa sana e robusta musica americana, pur conducendola poi verso orizzonti non così consueti. A separarci dall’arrivo del duo di Salt Lake City è l’esibizione degli Atomic Mold, una volta tanto un gruppo indigeno non piazzato in cartellone col solo scopo di attirare un po’ di pubblico: il terzetto, sicuramente a suo agio nella categoria “stoner”, accelera di rado e ci regala una buona mezzora di ruvidezze sleepiane periodo Earache, ma anche riuscite dilatazioni pinkfloydpompeiane. Il meglio comunque lo danno quando grattuggiano riff ipnotici che fanno ondeggiare la platea a ritmo, appena prima di schiacciarla sotto il peso della sezione ritmica. Gentry Densley, da dietro le quinte, osserva interessato. È quasi il suo momento: c’è spazio per una birra e qualche parola in zona bar prima che il ruggito di Quanah Un Rama ci chiami a raccolta sotto il palco; sopra l’ex Iceburn, chitarra custom con manico in alluminio (e ben due jack) e maglietta Southern Lord, si è posizionato sulla sinistra mentre il collega Tyler Smith, previdentemente vestito dei soli tatuaggi dalla cintola in su, occupa il lato destro col suo possente set di batteria. C’è giusto il tempo di pensare, dopo le prime due strofe del brano che apre The Thundering Heard, che forse assisteremo a un concerto di canonici pezzi dell’album, che la tempesta elettrica, già pienamente sviluppatasi, rallenta fin quasi a spegnersi per trasformarsi in un inedito blues lento e dolente, ideale per dare un attimo di sollievo a dei timpani già sotto sforzo; è il segno che la poetica degli Eagle Twin non si esaurisce nella potenza del suono: sarà questa successione di momenti relativamente tranquilli ed eruzioni metalliche a caratterizzare tutta l’esibizione, in un binomio dinamico e fortemente espressivo. A fianco di Densley Smith mulina gli arti e spara le bacchette (per fortuna verso il fondo, senza far feriti) producendo un volume di batteria infernale, l’unico possibile per tener testa all’urlo baritonale della sei corde del compagno. Alle loro spalle le fiamme volteggiano alte e gli spiriti dei giganteschi animali evocati nei testi montano furiosi, a fatica tenuti a bada dagli strumenti: Heavy Hoof ci travolge come una mandria in corsa e si dilata in una jam hardrock dove la chitarra sembra dar voce al grido degli ungulati e le percussioni imitare gli zoccoli che, come recita il brano, danzano sulle nostre tombe. Pavimento e muri tremano (chi è seduto sulle poltrone in fondo alla sala godrà di un inatteso vibromassaggio), le basse frequenze ci attraversano e corpo e mente ne sono sopraffatti in uguale misura: i due musicisti sono sciamani che, rendendo in qualche modo tangibile il suono, ci fanno partecipi delle scoperte del loro viaggio in una terra antichissima. Il coinvolgimento è totale pur mancando quasi ogni punto d’appoggio: frammenti di canzoni appaiono e scompaiono in una jam tellurica dove la colata sonora porta con sé un po’ tutta la storia di Densley, dalle storture impro-jazz a certe quadrature post-hardcore fino alle pesantezze doom, ma dove ogni riferimento razionale perde in realtà di senso, sacrificato alla costruzione di un suono primordiale eppure senza tempo. E se lo spazio vibra all’unisono con la musica, è proprio il tempo a diventare relativo: quando, poco dopo l’inizio, lo scuro folk di Carry On, King Of Carrion ci riporta a casa, in realtà è già passata un’ora. Solo a questo punto, tornato il silenzio (salvo il fischio alle orecchie che mi accompagnerà per ore) mi rendo conto di essere esausto, quasi svuotato; eppure, là sotto, ne avrei voluto ancora. Ma anche nella capacità di creare questo spaesamento sta l’unicità di una band come gli Eagle Twin.
foto degli Eagle Twin di Stefano Pateronster
Video di Giulio Brusati