Dalila Kayros – 02/03/13 Il Revisionario (Brescia)

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Fossimo dediti alle classifiche di fine anno, Nuhk di Dalila Kayros finirebbe certamente in testa alla mia lista; grande era quindi la curiosità di verificare dal vivo quanto di buono ascoltato sul disco. A darmene l’occasione è il piccolo ma attivissimo circolo bresciano Il Revisionario, che fornisce il palco all’artista sarda di ritorno dalle date europee in compagnia degli Psychofagist e pronta per una serie di date future, fra cui spicca quella di spalla a Lydia Lunch a Bologna.
In attesa di accedere al seminterrato dove si svolgerà il concerto è un pubblico vario, in buona parte incuriosito dall’idea in qualche modo esotica del cantato in lingua sarda, qualche isolano trapiantato in quel di Brescia alla ricerca di una rimpatriata, qualcuno già edotto dall’ascolto dell’album: quali che siano le motivazioni che ci hanno spinto in questa serata uggiosa nell’antica contrada del Carmine, non credo nessuno sia poi rimasto deluso. Così ad occhio, chi accomodato sui divanetti, chi seduto per terra, dovrebbero esserci quasi una trentina di persone: non avrei mai detto che la piccola stanza potesse contenerne tante. Dalila Kairos, in completa tenuta nera e altrettanto minimale strumentazione (laptop, loop station, microfono) è già sul palco; alle sue spalle rami e foglie proiettate creano una commistione kayros_revisionario_3fra natura e tecnologia che ben si adatta al tema della serata. Se l’idea di una ragazza che viene dalla Sardegna, col bagaglio leggero per suonare suscita immediata simpatia, non si può dire che l’inizio sia dei più accomodanti: i vocalizzi di Hor Kar Vudur sono di una brutalità praticamente metal, un aspetto che su disco non avevo colto, ma che ora mi appare evidente: al di là delle assonanze stilistiche, anche qui, come nelle pagine più epiche dell’HM, si fa rivivere in modo non intellettualistico il mito, il mistero e il mondo arcano della magia. È il primo di una serie di elementi che la performance farà emergere, permettendo di completare e arricchire quanto già si sapeva del lavoro di Dalila Kayros. È quello dell’autonomia dell’esibizione rispetto al disco un aspetto importante; anche se basata in buona parte su musica pre-registrata, con la sola voce come elemento live, non si avrà per un solo secondo l’impressione di assistere a un karaoke (sebbene alternativo) come capita per certi concerti di laptop music: se le basi sono quelle che conosciamo, la voce contribuisce a rivestirle di carne, nervi, sangue. Nella penombra della sala, col volto illuminato solo quando si avvicina allo schermo del PC, Dalila Kayros ondeggia come scossa dalle frequenze emesse dalle casse e ci accompagna su un sentiero oscuro, in un’atmosfera costantemente tesa, ma che guidati dalla sua voce percorriamo come in trance: adagiate sulle scarne strutture sintetiche sezionate da battiti piuttosto lenti, si sovrappongono urla gutturali, grida, voci melodiche e recitate, mentre lei, attraversata da una miriade di spiriti, è di volta in volta madre, compagna, strega, sacerdotessa, ora terribile, ora rassicurante. Tante figure si affacciano alla mente: certo, la Diamanda Galas più spiritata, ma anche la Miriam Makeba selvaggia che vediamo fugacemente in When We Were Kings, segni potenti di una sensualità atavica, slegata da ogni stereotipo (anche femminista) e che parla agli stati più profondi della coscienza. Solo così è spiegabile l’atmosfera attenta e partecipe che si respira nella stanza pur davanti a uno spettacolo kayros_revisionario_2tanto insolito, che resuscita la furia selvaggia e tecnologica del primo industrial e la innesta sul ceppo di una Sardegna lontanissima dalle immagini da cartolina a cui siamo usi. Tutti i brani dell’album sono resi in versione assai intensa, ma resta nella memoria, in particolare, un lungo brano dove la Kayros si sdoppia fra recitati aggressivi e melodie celestiali, mentre sullo sfondo l’elettronica minimale avanza a fatica. Quando, dopo una mezz’ora senza pause, tutto finisce e la musicista si presenta a e saluta, abbiamo bisogno di un altro brano, un’improvvisazione vocale gentilmente concessa, per mediare fra le atmosfere della serata e l’imminente ritorno alla realtà. Realtà che ci riserva, una volta riemersi, una pioggia insistente e i primi freddi dell’anno: portiamo con noi la soddisfazione di un’esibizione che lascia il segno e l’interrogativo su quali saranno le prossime incarnazioni di un progetto artistico dalle così grandi potenzialità.

(Foto de Il Revisionario)