Chris Pitsiokos è una personalità molto interessante del nuovo sottobosco avant jazz new yorkese, approfondisce le possibilità del sassofono alto praticando una commistione tra influenze free jazz feroci, la composizione contemporanea di Xenakis e istanze noise, imbastendo il tutto all’interno di un coacervo avant rock e riuscendo a mettere in campo una prospettiva attuale e d’impatto, che si fa apprezzare per la sua freschezza. Un’intezionalità che parte da ispirazioni inevitabilmente Colemaniane, passando per le intuizioni di John Zorn, dalle sue estremizzazioni, ma soprattutto dalla sua capacità di mescolare diverse impronte musicali assieme e in modo effettivo: prerogativa riconosciuta al boss della Tzadik rispetto a tante declamazioni occasionali della stampa, “C’è un gran parlare di abbattere le barriere e dissolvere i confini tra i generi, ma di solito quando i giornalisti parlano di questo si tratta di una totale stronzata. Zorn è uno dei rari musicisti che fa davvero questo lavoro”, ha affermato senza peli sulla lingua in un’intervista dello scorso anno su Jazz Right Now; Pitsiokos cerca di fare avanzare questi punti di vista, concentrandosi sull’espandere e sul procedere oltre.
C’è un gran parlare di abbattere le barriere e dissolvere i confini tra i generi, ma di solito quando i giornalisti parlano di questo si tratta di una totale stronzata. Zorn è uno dei rari musicisti che fa davvero questo lavoro
Così come sono determinanti per il suo suono le influenze dei soli per alto di Anthony Braxton e della scena no wave degli anni ’70, o ancora la sperimentazione oltranzista di Merzbow e dei To Live And Shave in L.A., per arrivare fino ai Wolf Eyes e MV Carbon. Interessi che si possono percepire nei tagli insistenti e lancinanti delle sue performance soliste, come nella capacità di agire realmente sul concetto di collettivo per trasmettere forza all’interno di un contesto sonoro che si frantuma e si spande in modo nervoso, anche grazie alla continua stimolazione della tensione dialettica tra le individualità e il contesto di insieme, una pratica attiva per far emergere nuove urgenze creative. Una visione che realmente armonizza in modo efficacemente dissonante derive rumorose e spinte free, componenti out rock e l’improvvisazione più radicalizzata.
In solo raggiunge intensità notevoli graffiando corde sospese, come succede in Valentine’s Day (2017), dove Four Alto, dedicata esplicitamente a Braxton, cerca di catturare i concetti più penetranti del compositore chicagoano. Un disco che si dispiega senza farsi mancare armonizzazioni progressive e melodie insistite come il maestro insegna, ma che spinge costantemente il tutto in uno spazio sempre pronto a slabbrarsi in estensioni di armonici corrosivi; una pratica che per sua stessa ammissione lavora sull’introspezione, che spinge nel sommare voci contrastanti stratificandole con evidente impeto.
Tra le sue esperienze più rumoriste c’è poi il noise trio Faint Praise, estenuanti session improvvisate di chitarra, batteria, sassofono e voce, assolutamente deflagranti e ossessive, che richiamano lo spirito dei bootleg delle improvvisazioni di fine anni ’70 della no wave newyorkese, ascolti molto apprezzati dal nostro, evidentemente ispirato dalla carnalità fragorosa e scarna che dona una patina irripetibile alle registrazioni.
Prove molto interessanti di Pitsiokos possiamo ascoltarle nell’ultimo quartetto free jazz contemporaneo di Nate Wooley su Knknighgh (Clean Feed, 2017), oppure nelle derive decisamente più avant-garde di Collective Effervescence (Clean Feed, 2016), lavoro molto affascianante di un altro valido fautore del suono contemporaneo quale il batterista Dre Hocevar. E poi le sperimentazione in ambito free jazz del Chris Pitsiokos Quartet, assieme al chitarrista Andrew Smiley degli ottimi Little Women di Darius Jones, a Henry Fraser (basso elettrico), attivo con l’avant trio The Ghost, e a Jason Nazary alla batteria (Little Women, Darius Jones Trio). One Eye With A Microscope Attached, pubblicato su Aleatic nel 2016, è free piuttosto urticante, scritto su cambi improvvisi e temi aumentati da propensioni caustiche, dove la decisa componente elettrica libera spazi in modo inaspettato.
Sono piuttosto cinico riguardo alla comunità di musicisti creativi di New York, molto di quello che viene etichettato come musica creativa è in realtà musica d’epoca
Frequentatore assiduo di nomi autorevoli della scena contemporanea, da Paul Lytton e Tyshawn Sorey, fino ad arrivare a Weasel Walter, con cui condivide un’evidente affinità di vedute nonché diverse collaborazioni, come Unplanned Obsolescence (Ugexplode, 2012), furioso duo per batteria, sax alto e live electronics, e Maximalism (Eleatic, 2013) in trio con il chitarrista Ron Anderson. E poi Peter Evans, Otomo Yoshihide, C Spencer Yeh, Lydia Lunch, per citare solo alcuni dei musicisti con i quali si esibisce in devastanti session dal vivo.
In breve tempo è sicuramente riuscito a mettere a punto un linguaggio con un’intenzione del tutto personale nel trattare la materia, ma anche critico verso una semplice riproposizione schematica. Se New York è sempre stata il centro propulsore di tendenze avant a livello mondiale, Pitsiokos non risparmia appunti ad acquisite posizioni di rendita, “Sono piuttosto cinico riguardo alla comunità di musicisti creativi di New York,” afferma, “molto di quello che viene etichettato come musica creativa è in realtà musica d’epoca”. Una scena dal passato glorioso e in qualche modo irripetibile che, secondo lui, al netto di alcuni musicisti che continuano a fare una ricerca effettiva, si esprime molto spesso con riproposizioni di qualità che non vanno oltre il già detto, “Molte delle improvvisazioni che si facevano alla fine degli anni ’70 a New York sono più avanzate e interessanti di qualsiasi cosa stia accadendo ora”.
Un punto di vista che guarda “oltre” anche geograficamente, al di là di un recinto delle musiche altre comunemente riconosciuto, verso scene in fermento più laterali, come quella latino americana di Buenos Aires o di Città Del Messico, o più periferiche rispetto al tradizionale mondo del music business americano, come quella di Denton in Texas.
Un’ottima occasione per comprendere le sue capacità compositive e la sua visione musicale è sicuramente quella di ascoltarlo in alcune recenti uscite dalla qualità piuttosto alta, sia in veste di leader che in trio con Daniel Levin e Brandon Seabrook.
Before The Heat Death della CP Unit, uscito su Clean Feed nel 2017, vede un quartetto creativo con nomi di indiscussa personalità sotto la sua guida: Brandon Seabrook, chitarrista di peso attivo in diverse importanti formazioni trasversali, Tim Dahl al basso elettrico, già nei Child Abuse e nei Retrovirus di Lydia Lunch, e dietro le pelli Weasel Walter degli indimenticabili Flying Luttenbachers. Una materia altamente infiammabile che si nutre dei bagliori devianti di DNA e Tenage Jesus & The Jerks, dove il discorso free viene pronunciato selvaggiamente e traghettato da parti di tensione rarefatta, ma è la componente math noise a chiudere il cerchio con trovate affilate e reiterazioni dispari.
Molte delle improvvisazioni che si facevano alla fine degli anni ’70 a New York sono più avanzate e interessanti di qualsiasi cosa stia accadendo ora
Quadrature di potenza che agiscono in modo incisivo facendo assaporare tutto il gusto out di un suono sporco che ha le proprie radice nel rock obliquo: frenetiche ripetizioni di stacchi ossessivi (Fried, Supersax), matematiche rumoriste trasversali (Quantized), aperture nervose per cavalcate squarciate di feedback (Death In The Afetrnoon), frammenti prossimi al grind (Guillotine), eufemismi ballad dai dettagli distorti (Ballad) e sommatorie di pattern che corrono verso lo sfacelo (Wet Brain). Un insieme di pezzi dove il tocco batteristico aggiunge una rifinitura tirata giù con durezza e un disco che convince per la sua abrasività punk e per la ricerca continua.
Il ritorno della Chris Pitsiokos Unit, sempre su Clean Feed, con Silver Bullet In The Autumn Of Your Years (2018), continua a tirare le stesse corde del suo predecessore, approfondendone le direzioni e aggiungendo varietà al discorso, anche attraverso un uso maggiore dell’elettronica e di una componente funk che ogni tanto spunta fuori a dare polpa. Il baricentro dell’album è spostato in una direzione più sentitamente free jazz, ma allo stesso tempo con uno sguardo maggiormente delirante. Doppia formazione alternata che vede susseguirsi il chitarrista pop sperimentale Sam Lisabeth, Tim Dahl e Henry Fraser ai bassi elettrici, Jason Nazary alla batteria e live electronics, Connor Baker (The Ghost) alla batteria e Pitsiokos al sax alto, live electronics e programming. Formazione cangiante che aumenta l’ottica di dispersione geometrica del centro attivo, con una visione di base intatta e un’efficacia indiscutibile che confermano la personalità del progetto. Disco nel quale risuonano ancora rapidi frammenti liberi e assalti math (Dalai Lama’s Got That Pma), dove il suono diventa ancora più dirompente quando l’elettronica sottolinea elucubrazioni furiose (Orelius) o stacchi sferzanti (Positional Play). E se la title track spinge sulle suggestioni taglienti come biglietto di ingresso, rapidamente poi precipita in esplosioni frenetiche che scemano in jazz funk storto e scostante, fino a trasformarsi in pura reiterazione nevrotica. Funk che si rapprende nei frangenti dove l’armolodia si tinge di rumore scrostato (Once Upon a Time Called Now), situazioni in cui i titoli sono effettivi piani programmatici. E mentre il tema viene colemianamente esagerato spingendone all’estremo le possibilità ritmiche in A Knob on the Face of a Man, è il definitivo finale di Arthropod a spazzare via tutto per undici minuti, incamminandosi con un’elettronica oscillante in un vuoto spinto e allucinato per poi tuffarsi rapidamente nel delirio, chiudendo con ridefinizioni di temi noir che non prevedono alcuna speranza di appiglio al classicismo.
Se la CP Unit pratica un’affascinante forma contemporanea di jazz punk deviante che ci conforta e rincuora, non meno succede quando il nostro divide le forze con il contrabbassista di lungo corso Daniel Levin e le corde di Seabrook su Stomidae (Dark Tree, 2018), lavoro ispirato appunto ai pesci abissali dalle notevoli capacità predatorie. Il suono graffia i fondali facendo largo uso di tecniche estese in continua propagazione, sempre in agguato anche nei momenti più distesi, quando la tensione palpabile è quella della ricerca della preda, del cacciatore che si muove con circospezione nervosa strisciando sulla sabbia per poi esplodere nell’aggressione. Chitarre scorticate e slabbrate e spinte verso frammenti di rumorismo ambientale, fiati stirati al massimo, rimbrottati e costantemente pronti a lacerarsi, e contrabbasso suonato con una fisicità ai limiti della violenza nei momenti più disorientanti, comunque agito in tutta la sua estensione di oggetto risonante a dare profondità alle rarefazioni. Un percorso serrato fatto di continui strappi che evocano forte inquietudine e attraversato costantemente da spasmi free che richiamano ambienti ostili, collimando con la contemporanea in un rapporto devastante quanto il noise con il gusto delle opere d’avanguardia. Su tutto un interplay dall’ottica spietata, che sa raccontare brutalmente e riaccordare le singole tracce dando concretezza all’insieme.
Pitsiokos è un nome da tenere bene a mente quando si parla di nuova scena avant-jazz e non solo, e tutto lascia presagire ulteriori sviluppi di un approccio che, sostenuto da basi concettuali premeditate a dovere e da una pratica fedele alla linea, riesce effettivamente a trovare nuovi sbocchi, a costruire architetture di suoni liberi in modo del tutto attuale. Non possiamo fare altro che tifare per la sua visione decisa nell’andare oltre e continuare a goderci le sue performance.