Cosa si può ancora dire della musica di The Star Pillow? Col suo progetto Paolo Monti esplora le possibilità espressive date dalla chitarra combinata ad effetti e laptop spostando la ricerca sempre più in là, attraverso mutamenti difficilmente percepibili a… orecchio nudo, specie se si è seguito ininterrottamente il percorso del musicista almeno a partire da All Is Quiet (2015); può sembrare una semplice questione di sfumature, ma è in casi come questo che le sfumature sono importanti. Symphony For Intergalactic Brotherhood, sarà l’ispirazione spaziale, porta il processo di astrazione del suono al probabile punto di non ritorno: a parte l’incipit di An Interstellar Handshake la sei corde non si rivela mai in quanto tale, preferendo dissolversi in morbidi droni solo raramente addensati in sequenze più scure. Poi, quando riuscite ad immergervi nel suono, nella coltre che in prima battuta vi appariva indistinta, iniziate adistinguere le vibrazioni che animano la malinconica My Dear Elohim conducendola a un finale stridente, i toni più crudi che aprono From Dust To Stars che viene poi scossa da cori spettrali e la partitura quasi classica di An Interstellar Handshake che a tratti sembra una composizione per organo e strumenti ad arco (è anche una musica di miraggi, questa). Avevamo già scritto che gli album di The Star Pillow richiedono totale dedizione e lo confermiamo; aggiungiamo però che è anche musica che vive per il momento e non solo quello in cui viene creata, anzi, soprattutto per quello in cui, superata la prima impressione di immobilità, riuscite a sintonizzarvi sulla sua lunghezza d’onda, il momento in cui finalmente vi parla. È allora che comincia quello che a parole non possiamo descrivere.