In una sera dove, un po’ il maltempo, un po’ i tanti appuntamenti programmati in città (oh, i Subsonica al palazzetto!), tengono il pubblico delle grandi occasioni lontano dall’Interzona, va in scena uno degli spettacoli più incredibili che ci sia dato di vedere da parecchio tempo a questa parte: Black Bananas e Vin Blanc/White Wine sfoderano performance diametralmente opposte eppure, in qualche modo, assurdamente complementari.
Sulla carta l’abbinamento ci poteva stare, per via dei diversi punti che accomunano le band: due gruppi rock con organico ridotto e assetto lontano dall’usuale, entrambi con una componente elettronica ben presente ed eredi di nomi di culto degli anni passati. I primi ad esibirsi sono i Vin Blanc/White Wine, duo composto dall’ex 31 Knots Joe Haege e dall’ottimo polistrumentista Fritz Brückner, che hanno montato il set ai piedi del palco: nelle postazioni affrontate si trovano due tastiere, una batteria minimale, dei pad, una chitarra e un basso. Personalmente non ho mai troppo amato i barocchismi post-hardcore dei 31 Knots, mentre ho molto apprezzato l’esordio di questo nuovo progetto, un album dove la riconosciuta qualità di scrittura prende la forma di composizioni più minimali e varie, fra indie rock, reminiscenze hard e qualche tocco retrò; tuttavia questo è nulla rispetto a ciò che si ascolterà e vedrà stasera: disposti a semicerchio introno ai musicisti, assisteremo ad uno spettacolo dove le canzoni vengono valorizzate dalle qualità teatrali di un grande Joe Haege. Inizia quieto, con la ballata I’m Here, ma già la successiva Glassy Eyes lo vede uscire dalla postazione, microfono alla mano, e saltellare faccia a faccia col pubblico, pantaloni che arrivano alle caviglie e braccia al cielo. Assisteremo ad altre di queste sortite e fra i presenti c’è chi si meriterà un abbraccio, chi una spintarella o uno strattone, chi se lo troverà improvvisamente compagno di tavolino: un istrione, ma mai eccessivo e ben attento a non trascurare il lato musicale della faccenda. In parte per l’assenza del palco, un po’ grazie a serie di brani che conquistano al primo ascolto e molto per la grande comunicatività del frontman, si viene rapidamente a creare una situazione dove ogni distanza fra pubblico e artista è annullata, con un reciproco ed appagante scambio di energia ed emozioni. Sarebbero tanti gli episodi da raccontare, così come le canzoni degne di nota: riassumiamo tutto citando un toccante inedito cantato stando inginocchiato fra il pubblico e una travolgente Ease Up!, iniziata con un siparietto dove i due musicisti si sfidano a colpi di pad e conclusasi con Haege che sparisce dietro le quinte dopo aver cantato ancora una volta in mezzo alla platea. Un fuoriclasse autentico, a cui le parole possono rendere solo parzialmente giustizia. È naturale pensare, dopo una performance di questo livello, che gli headliner della serata si impegnino a fondo per lasciare il segno, ma i Black Bananas non si pongono minimamente il problema: per certi versi nemmeno scendono in campo. Ora, capisco che, anche solo a tentar di giustificare una performance come la loro, si rischi di passare per accaniti consumatori della più classica merda d’artista, eppure c’è stato qualcosa che mi ha tenuto -e ha tenuto diversi fra il pubblico- lì fino alla fine; e non si trattava semplicemente di gusto dell’orrido! Ma andiamo con ordine. Su un palco che mai ho visto così spoglio, si sistemano Kurt Midness a tastiere e device elettronici, sul fondo, Brian McKinley, chitarra e cappuccio perennemente calato in testa, sulla destra e l’ex Royal Trux Jennifer Herrema al microfono, ipoteticamente destinata a svariare su tutto il fronte sinistro. È lei che da subito catalizza l’attenzione: terribile maglietta psichedelica, jeans strappati, stivali, cappello da baseball calato sugli occhi e movenze non proprio aggraziate, ricorda una versione al femminile dell’Axl Rose ultima maniera. Esteticamente non una grandissima impressione, ma musicalmente? Fin dalle prime battute la situazione che va delineandosi è questa: suoni e battiti elettronici vanno per conto proprio e occupano buona parte dello spettro sonoro, lasciando un po’ di spazio a una chitarra che quasi mai suona come tale, mentre la cantante ciondola per il palco, scola alternativamente birra a whisky, si gingilla col comando del delay, disturba il tastierista, gioca a fare le ombre cinesi e, come da contratto, canta. Che buona parte dei pezzi della band non siano propriamente memorabili lo si capisce dai dischi, ma il problema non è questo, dato che stasera sono a stento riconoscibili: la questione è che tre musicisti chiusi ognuno in una cabina insonorizzata non suonerebbero diversamente dai Black Bananas e l’unico esempio di coordinazione di tutto il concerto sarà il pendant tra il corpo della chitarra, dipinto a mo’ di pelle di serpente, con gli stivali della Herrema; per il resto sarà una sequenza di cose fatte talmente a caso da far pensare possa trattarsi di avanguardia così colta da non essere comprensibile a noi comuni mortali. In realtà, verso la metà, con l‘esecuzione di Hey Rockin’, si ha l’impressione che le cose possano finalmente iniziare a girare per il verso giusto, ma i tre impiegano un attimo a mandare tutto in vacca e a rimettere l’esibizione sui binari del più assoluto disordine. Eppure, per quasi un’ora, stiamo lì, ipnotizzati da questo (non) concerto, a chiederci cosa possa ancora (non) accadere, ad assistere all’edificazione di questo monumento all’incomunicabilità; l’unica giustificazione possibile è il fascino dato dal trovarsi di fronte a una pura manifestazione di rock’n’roll, in particolare di un episodio che, per quanto minore, si iscrive a pieno titolo nel filone dei concerti sbagliati con la S maiuscola, di quelli che vanno ben oltre la semplice serata storta: che ne so, i Pink Floyd con Syd Barrett che suona per un’ora la stessa nota, o Jim Morrison che collassa sul palco e i Doors che continuano a suonare; tutte storie che costellano la mitologia di un genere che stasera vede una new entry. A rimarcare la lontananza da un’esibizione normale, l’uscita di scena senza il ritorno per i consueti bis, nonostante gli applausi prolungati di un pubblico votato all’autolesionismo; ma effettivamente non c’era altro che si potesse aggiungere a una serata, per ragioni diversissime, davvero imperdibile.