A Place To Bury Strangers + Bambara – 26/10/13 Interzona (Verona)

Si annuncia un’altra serata di gran livello questa dell’Interzona, in linea con una programmazione che privilegia la messa in scena di pochi nomi piuttosto ricercati, senza farsi troppo condizionare dal richiamo che potrebbero avere. Non è comunque questo il caso: gli A Place To Bury Strangers raccolgono, ad ampio raggio, un pubblico numeroso, segno di una credibilità maturata nel corso degli anni, in una carriera senza picchi di notorietà ma priva anche di cadute di stile.
Altra cosa apprezzabile del locale è la politica dei gruppi spalla, che vengono fatti suonare solo se effettivamente meritevoli; niente band locali raccattate nel tentativo di rimpinguare la platea di parenti e amici: questa sera a scaldare l’atmosfera ci pensano i Bambara, trio chitarra-basso-batteria autore di un noise rock sulla carta non troppo lontano da quello dei titolari della serata. bambarainterzonaVolume da martirio dei timpani, batteria pestata al limite della denuncia, chitarra torrenziale: tutti elementi utili a comporre l’identikit di un gruppo di classico New York noise. L’esibizione risente un po’ di un cantante al cui confronto Kurt Cobain sarebbe sembrato Robert Plant e una certa monotonia nella scrittura, ma non suonano troppo a lungo, fermandosi giusto un attimo prima di annoiare. Restano nella memoria, come pezzi più rilevanti, quelli dove il chitarrista abbandona lo strumento per smanettare con pedalini ed elettronica varia sull’incedere imperterrito della sezione ritmica: si affaccia lo spettro del rock’n’roll industriale del concittadino Foetus ed è davvero un bel sentire. I tre hanno assolto il loro compito scaldando l’atmosfera, ma nel ricordo dei presenti scompariranno completamente al cospetto dell’incendio provocato dagli A Place To Bury Strangers: l’assetto strumentale è identico, ma qui vengono toccate vette che pochi possono permettersi. Attuata a caldo, la fusione fra scheletriche strutture wave e colate di noise rende come dai dischi si può solo lontanamente immaginare e davvero potremmo essere al cospetto di una band post-punk britannica fulminata sulla via di New York come di un gruppo della Grande Mela infatuatosi APTBASinterzona_1delle strutture geometriche del suono di Albione. Sono questi tuttavia pensieri che nascono a posteriori, perché al momento c’è ben altro a cui pensare, storditi da fumi e luci saettanti e travolti dai volumi un concerto davvero epico. Era parecchio che non vivevamo momenti così esaltanti, trascinati da musicisti che non si risparmiano fin dal primo secondo: Robi Gonzalez alla batteria picchia come un ossesso ma è un metronomo, Dion Lunadon al basso, stivali, jeans e camicia e nera, detta i tempi, mentre Olivier Ackermann già al terzo brano inizia a maltrattare le chitarre – mai viste di così malridotte: scrostate, graffiate, addirittura mutilate – generando ogni genere di suono. Il pubblico reagisce di conseguenza e sotto il palco si scatena un pogo nel quale, avessimo l’età, ci butteremmo volentieri; consci dei nostri limiti restiamo nelle APTBASinterzona_2retrovie, una posizione che consente comunque di godere appieno dello spettacolo. La scaletta ripercorre tutta la discografia del gruppo, EP compresi, dall’”antica” I Know I’ll See You alle recenti cover Don’t Burn The Fires e Dead Moon Night (entrambe dei Dead Moon), con una So Far Away e una Death Ego particolarmente ispirate. Rispetto alle incisioni la voce resta un po’ in secondo piano, inevitabilmente vessata dal muro di rumore, ma il mix di melodia, ritmiche wave e  noise chitarristico funziona: in tempi di rock’n’roll paraculo e gigione, gente che suona e basta, senza fronzoli, senza inutili discorsi, senza pause se non quelle per il cambio degli strumenti (non di rado effettuato durante il pezzo) è una benedizione. Fra chitarre che volano in aria e per terra ed aste del microfono abbattute, si arriva al gran finale, ovviamente senza il siparietto ruffiano di andarsene e tornare per il bis: l’Interzona è invaso dal fumo come forse solo in occasione del concerto dei Sunn o))) e Ackermann, reso invisibile dalla cortina fuomogena, estrae drone su drone dai pedalini. Quando riemerge col suo strumento d’elezione, fra nebbia montante e i flash delle stroboscopiche che aumentano il senso di straniamento, tutto viene portato all’eccesso: chi ha ancora qualcosa da dare sotto il palco spende le ultime energie, gli altri stanno attoniti ad attendere la fine della cerimonia, annunciata solo dallo scemare dell’onda sonora; i tre musicisti, nascosti alla vista, hanno guadagnato i camerini senza dire una parola. Senza parole siamo anche noi: ogni commento è superfluo e forse anche questa recensione. Chi c’era sa.

Foto di Emanuela Vigna