Dell’associazione Humus di Valeggio sul Mincio avevamo avuto già modo di parlare in occasione del concerto di Murcof, che battezzava la stagione del decennale; con questo secondo appuntamento si celebra la riapertura della storica sede di Villa Zamboni, splendida villa d’epoca posta ai piedi del castello scaligero: in programma due giorni di concerti, che daranno voce a gruppi locali, nazionale e internazionali.
Si parte il venerdì, con la provincia veronese che tocca gli antipodi: sul palco un gruppo della zona e i neozelandesi Die! Die! Die!. Il terzetto de I Comunisti (da queste parti puoi far peggior figura solo chiamandoti I Terroni o I Negri),mette insieme una batteria e due chitarre, di cui una quasi sempre suonata con l’ausilio di un cacciavite: quello che salta fuori è una frana impro-rock, che prende forma (si fa per dire) in un lungo strumentale dove solo a tratti i tre trovano la quadratura, ma con traiettorie che appaiono del tutto casuali. La loro è un’interpretazione perversa del free-rock, dove più volte si ha l’impressione che i musicisti vadano ognuno per conto proprio: ammetto umilmente di non aver capito dove volessero andare a parare. A discapito del nome che si sono scelti, la loro è musica eminentemente disfattista, che nella gloriosa Unione Sovietica sarebbe valsa un biglietto di sola andata per la Siberia. Dopo quasi un’ora di esibizione, glielo avremmo pagato volentieri noi. Il cambio di registro è totale con l’arrivo dei Die! Die! Die!: noise rock melodico, tirato, regolare. Pure troppo, nonostante l’impegno, specie del cantante/chitarrista che spesso si dimena giù dal palco in mezzo al non numerosissimo pubblico: il concerto stenta a decollare, anzi, non decolla affatto, senza che si capisca bene il perché. I pezzi sono carini, ma manca la botta, quella visceralità che è un po’ il marchio di fabbrica dei gruppi che provengono da quelle parti. Alla fine li si ricorderà solo per avere la batteria più malmessa e rattoppata mai vista. Peccato, avendo ascoltato il disco, che non è affatto male, mi sarei aspettato di più. Quasi quasi rimpiango I Comunisti.
La seconda serata, con un tempo da lupi a rallentare l’affluenza del pubblico, che sarà comunque buona, è anche l’occasione per festeggiare il compleanno di Alta Fedeltà, l’inserto della Voce di Mantova che, da ormai quattro anni, racconta settimanalmente storie di musicisti locali e non, recensisce dischi e concerti, dà notizie sul mondo della musica indipendente (niente cover band di Ligabue e serate di liscio, insomma). Inutile dire quanto una cosa del genere sia un caso più unico che raro, sia a livello locale che nazionale, nel paese dove un quotidiano come Repubblica che almeno ci prova, finisce per dedicare a Bon Iver un articolo involontariamente grottesco. A soffiare sulle candeline è il giovanissimo quartetto dei Dustcloak, rock melodico e tirato in odore di Foo Fighters, a tratti scolastico ma decisamente più energico dei neozelandesi della sera prima. Insomma, si fanno ascoltare: eliminassero alcune cadute di tono (gli intermezzi urlati come se si rivolgessero a una platea sconfinata e la cover di Bullet In The Head, del tutto fuori luogo) sarebbero più godibili, ma sono giovani, e mangiando polenta e dischi giusti si potranno fare. Meritano mezzo punto in più per la somiglianza del cantante/chitarrista con Mick Jones dei Clash. Se c’è una cosa che a un gruppo esordiente può servire, è far da spalla a una band storica come i Cut. Storica, ma ben lontano dall’essere consegnato alla storia: giù dal palco Ferruccio Quercetti e Carlo Masu sono signori normali, anche un po’ attempati (mi sa che più o meno siamo coetanei…), poi gli dai una chitarra in mano si trasfigurano in selvaggi rocker, sciorinando pezzi sparatissimi e trascinanti, supportati dal gran dinamismo di Francesco Bolognini alla batteria. È roba che non sfigurerebbe nel catalogo In The Red o Amphetamine Reptile del bel tempo che fu (a tratti mi hanno ricordato gli ottimi e misconosciuti Vertigo), con pezzi nuovi e vecchi che si mescolano a meraviglia, senza che ci sia un attimo di pausa, se non per decantare le doti del cuoco che li ha nutriti questa sera. Il resto sono, nell’ordine: duetti di chitarre torride, melodie vocali a presa rapida, batterie vorticose, sudore a secchiate e salti su e giù dal palco, a cui è da aggiungerne uno, piuttosto goffo, di Masu sulla batteria, un numero degno del Kurt Cobain più autolesionista, ma con risultati fortunatamente meno disastrosi. Si finisce sancendo la definitiva inversione fra stage e platea col pubblico, partecipe ed entusiasta per tutto il concerto, invitato a salire sul palco, nella miglior tradizione degli Iron Maiden degli anni d’oro. Decisamente un gruppo in gran forma: per loro la strada dell’annientamento, come titola il loro ultimo album, è ben lungi dall’essere stata imboccata.