“Cagata pazzesca” o “merda d’artista”, questi i due poli fra cui mi immaginavo potesse oscillare la versione 2.0 dei Talibam! arrivano in Italia dal vivo dopo la svolta hip-hop, che dai comunicati letti in rete e dai brevi teaser presenti mi aveva dato la netta sensazione del disperato colpo di coda di un gruppo che da tempo ha esaurito idee e risorse. Tuttavia, un po’ per il blasone del gruppo, un po’ nella speranza di essere smentito, sfrutto la più vicina data del loro tour italiano per andare a verificare di persona.
Nel cuore della movida bresciana non è facile parcheggiare, ma ancora meno facile è penetrare, soprattutto se privi di lanciafiamme, nella massa di gente in tacco 12 e pantaloni alla MC Hammer che affolla le vie del centro storico, bevendo e ciarlando fuori dai locali. Il Carmen Town non fa eccezione, dal punto di vista faunistico, ma almeno il seminterrato è una specie di zona franca, dove viene portata avanti l’eredità di quello che fu il glorioso Morya. Già il palco riserva una sorpresa, perchè la strumentazione è la stessa dei Talibam! prima maniera, tastiere e batteria, mentre temevo un’esibizione fatta unicamente di basi e voci: in sé non vuol dire niente, ma anche nella peggiore delle ipotesi ascolteremo un po’ di manodopera di buona qualità. Un punto a favore della cazzoneria lo segna invece l’abbigliamento dei musicisti: Kevin Shea modello dandy andato a male, completo grigio, camicia e Ray Ban, Matt Mottel in mise da coatto totale, t-shirt usurata, cappellino e pantaloni aderenti, con un colore a metà fra una mimetica e un quadro di Pollock. Dopo queste considerazioni è finalmente il momento di lasciar parlare la musica, che al primo impatto rivela una prevedibile influenza dei Beastie Boys, con entrambi i musici nel ruolo di MC, ma che nel corso dell’esibizione se ne allontana, grazie soprattutto al lavoro dietro alle pelli di Shea, che abbinato a delle tastiere quasi prog, crea atmosfere decisamente sghembe. Per questo non può che venir fuori un hip-hop sui generis che dà il giusto spazio alle rime e poi lascia il posto a stacchi strumentali propri dei vecchi Talibam!, a cavalcate quasi techno, a parentesi decisamente pop. L’autodefinizione di no school, è quanto mai azzeccata. Per tutto il concerto, fra una canzone, una posa grottesca e un breve siparietto, l’attitudine cazzona emerge, ma non arriva mai a prevalere del tutto: si ride, certo, ma a mezza bocca, perchè è evidente che sotto c’è della sostanza, e che la sterzata stilistica, anche se magari dettata da ragioni d’opportunismo, è supportata da una buona dose di idee e valorizzata da una manciata di canzoni (Sweet Leader, Puff Up The Vollume…) di presa immediata. Quello che abbiamo di fronte stasera è gruppo simpaticamente paraculo nel suo non cercare di accontentare tanti palati, ma dotato di personalità e questo è certamente una dote rara. D’altra parte la trasversalità del pubblico presente in sala parla da sé, e oltre agli abituali frequentatori, spiccano alcuni personaggi evidentemente risucchiati dalla movida sovrastante, che tentano anche di ballare una specie di breakdance sui beat contorti della batteria di Shea: i risultati sono quelli che sono, più simili alla Lorella Cuccarini di Vola che non a Ken Swift, ma onore al merito. Se proprio devo peccare di pignoleria, i due difettano un po’ di senso della misura, tirando per le lunghe sul finale, con tre pezzi molto dilatati e prevalentemente strumentali, ma è anche vero che, anche in questi frangenti, danno l’impressione di essere decisamente più in palla e vitali dell’ultima volta che li vedemmo live. Tanto di cappello quindi alla voglia di rimettersi in gioco dei due newyorkesi: almeno dal vivo il progetto funziona alla grande.