Se la locuzione “rock italiano” non vi provoca immediatamente il mal di pancia, la seconda uscita discografica dei Superportua potrebbe fare al caso vostro. Intendiamoci, da quando il termine di sopra prese piede, diventando una sorta di marchio, questo è stato apposto su solenni porcherie, ma c’è stato un tempo in cui, ai margini dei riflettori, sono usciti dischi di valore, capaci ancora oggi di colpire e ispirare. E proprio da quelle zone d’ombra sembra crescere il sestetto veneto, ripercorrendo, magari casualmente, le vie dei precursori per giungere all’oggi.
Nonostante un’evidente vena di raffinato pop che attraversa tutto il disco, può darsi che al primo ascolto non tutto vi torni; a me è successo: l’impressione che alcuni suoni fossero datati, la sensazione di una personalità vocale che a volte latitava o ancora il fastidio di metriche che sembravano sbagliate, non mi permettevano di godere appieno del lavoro. Poi, non gli ascolti ripetuti, ma il semplice lasciar decantare, periodo durante il quale capitava che ritornelli e testi tornassero improvvisamente in mente, ha fatto sì che ogni elemento andasse al proprio posto e anche le incongruenze trovassero la loro ragione d’essere come segni di un’autorialità capace di accarezzare, ma non di rado anche di mostrare una spigolosità espressionista che, nel suo evidenziare il lato più ruvido della band, era la vera assente del disco precedente. Proprio questo ci fa dire che nelle tracce di Grumi troviamo una raggiunta maturità nella scrittura che porta a combinare elementi che, sulla carta, faticherebbero a convivere (si ascolti Seth, che inizia minimale e finisce con una magniloquenza che trasporta), mentre i testi, già ottimi in passato, scivolano senza soluzione di continuità dal personale al sociale, una bipolarità che confonde e affascina. Detto tutto questo, risulta davvero difficile pescare nel mazzo qualche brano significativo senza far torto agli altri. Ha forse più senso individuare dei filoni, sottotesti che corrono lungo l’intero album e che, incrociandosi e compenetrandosi, ne vanno a costituire la solida struttura. troviamo allora le apocalissi escatologiche e quotidiane della già citata Seth, della post-punk L’Ammazzatoio e de L’Uomo Di Paglia, l’esistenzialismo di Salvami e Rovi, le affermazioni, fra politico e personale, de Il Funambolo e Tornare Indietro. A questo si associano suoni che, lo dicevamo, pescano alle radici del rock italico, dai primissimi Litfiba ai Ritmo Tribale più ispirati, finanche a degli impossibili Baustelle privi di spocchia; sono tuttavia solo echi, impressioni sfuggenti che sfumano in un discorso musicale ormai troppo personale per essere definito da paragoni.
Va da sé, al momento quella del rock d’autore è una battaglia persa e non si vedono all’orizzonte nostri in arrivo a rovesciarne le sorti. Eppure, sono dischi come questi che rendono evidenze la mancanza di musica del genere e, nel loro piccolo, contribuiscono a riempire un po’ il vuoto.