K11 + Raskol’Nikov + Rotorvator – 29/10/11 Superfluo (Padova)

Un nuovo luogo di ritrovo, nella Padova da quest’anno orfana dell’ottimo Unwound. In realtà Superfluo non è propriamente un locale, bensì spazi sempre diversi che vengono temporaneamente utilizzati per esposizione e iniziative artistiche, all’insegna della commistione fra le varie forme d’espressione (per saperne di più, leggete qui). Questa sera Superfluo si incarna al piano terra del Central Park, un parcheggio a silos a poca distanza dalla stazione, con un programma prevalentemente musicale, che sconfina nella videoarte.
A fare da contorno a un’iniziativa poco circoscrivibile è inevitabilmente un pubblico quanto mai eterogeneo: ragazze ben vestite con accompagnatori in tono, frequentatori di gallerie d’arte, universitari vocianti e importuni, un manipolo di punk ubriachi con bottiglia d’ordinanza e i due irriducibili headbanger senza cui un concerto nell’area padovana non sarebbe degno di tale nome. Tre gruppi annuncia il programma, con in apertura i bellunesi Rotorvator. Non avendoli mai sentiti nominare, mi ero documentato con alcuni ascolti in rete, trovandomi al cospetto di un “rock black metal” (come direbbero i compagni di Repubblica) di tutto rispetto, che mi aveva spinto a varie considerazioni su quanto ormai tale genere sia sdoganato, soprattutto presso certi ambienti, fino a fantasticare di rinomati artisti nostrani che si circondano di metallari satanisti come Leonard Bernstein faceva nei ’60 coi militanti del Black Panthers Party. Grande è quindi la delusione nel trovarmi davanti, in luogo degli attesi blasfemi lungocriniti, borchiati e pittati come diabolici panda, un gruppo di barbudos cortocriniti in jeans e maglietta, delusione comunque cancellata da un rotorvator__superfluoset violentissimo, in cui i tre (voce, chitarra ed elettronica in luogo della sezione ritmica) declinano il metallo diabolico in chiave più moderna, dando il meglio quando le macchine si allontanano dalla pura imitazione di una batteria per proporre cadenze che vengono assecondate dalle sei corde con le tipiche melodie vorticose e dalla voce scarnificata, fino a sfociare in scure stratificazioni ambientali. Si suona senza palco, coi musicisti faccia a faccia col pubblico che, a causa della strabordante onda sonora, si tiene a rispettosa distanza; i punk addirittura infilano l’uscita, è già questo basterebbe a giudicare positivamente un’esibizione comunque davvero buona. Dopo di loro, col duo Raskol’nikov, si abbandonano i territori rock’n’roll, per quanto sui generis, e ci si stabilisce ai confini fra ambient e viedeoarte: musica che sonorizza vecchi documentari etnografici, a volte alterati digitalmente, prima con pesanti battiti dub su un tappeto di synth, poi con inserti di strumenti più tradizionali come chitarra, melodica o altri a corde, acustici. È un peccato che l’aascolto sia continuamente disturbata dalla presenza di numerosi idioti che, evidentemente annoiati (… ma andare al cinema?) non hanno trovato nulla di meglio da fare che parlare a voce alta, finendo per sommergere spesso il suono, caratterizzato dal tocco lieve, dei due musicisti. Resta comunque qualche pecca da raskol_nikov_superfluoparte del gruppo, come la scarsa coordinazione fra immagini e musica (data la forma irregolare del luogo i due suonano con lo schermo nascosto dietro un angolo) e la tanta carne al fuoco che richiederebbe invece maggior selezione, per valorizzare i momenti migliori delle composizioni, a volte in odore dei Coil più esoterici. Di tutt’altro tenore è la performance audiovisiva di K11, sigla dietro cui si cela il toscano Pietro Riparbelli: He Tries To Come To Us unisce alla musica un video girato nell’ormai cadente ex manicomio di Volterra, alla ricerca dei graffiti che Nannetti Oreste Fernando, alias N.O.F., ha inciso lungo tutto il perimetro dell’edificio durante il suo ricovero negli anni ’60; immagini e parole scritte in un alfabeto misterioso, che vanno k11__superfluoscomparendo con il degradarsi dell’intonaco. La radiocamera vaga per le stanze vuote come uno spettro in cerca della via d’uscita, e spettri siamo noi che attraverso il suo occhio, spesso alterato analogicamente, indaghiamo le stanze abbandonate, le pareti scrostate, gli archivi devastati dal tempo: sperimentiamo la tensione, l’idea di essere imprigionati in un percorso forzato, alla ricerca di qualcosa di cui abbiamo solo una vaga idea. Ad accompagnarci, suoni realizzati con sorgenti sonore e segnali radio ad onde corte captati all’interno dell’istituto: musica e immagini sono inscindibili, ma non sempre vanno di comune accordo, con la prima che, in alcuni casi, suggerisce letture che sembrano contrastare con ciò che vediamo, elevando gli squallidi spazi del nosocomio alla dignità di cattedrali. È un’ambivalenza che ritroviamo anche sul piano contenutistico: sicuramente il lavoro presentato stasera si pone al servizio di N.O.F., proiettandone l’opera oltre i cancelli dell’ex ospedale psichiatrico e facendola giungere fino a noi, ma possiede anche una propria personalità, nel mettere in scena la storia di una creazione attraverso il viaggio claustrofobico di una sensibilità disturbata. Ma si tratta davvero di una sensibilità disturbata o semplicemente di una più ricettiva del normale? La domanda è inevitabile nel momento in cui ci troviamo a tal punto calati nella materia da entrare in empatia col personaggio. I volumi sono ora decisamente più alti e fra rumore, voci live distorte e improvvise aperture melodiche, c’è poco da conversare o farsi gli affari propri parlottando; ma è anche vero che la performance è assolutamente coinvolgente ed è difficile distrarsi o abbandonarla una volta che ci si è fatti coinvolgere. La maggior parte dei presenti segue con attenzione quasi ipnotica e la liberazione giunge solo alla fine, quando il contorto cammino ci ha portato alla luce del sole, al cospetto, finalmente, dei graffiti di N.O.F.; eppure, dopo che tutto si è concluso, la musica finita e il video spento, passano alcuni minuti prima che la tensione suscitata dalla performance inizi a scemare. Ci sarebbe maggior bisogno di posti che diano spazi a progetti del genere, così come di progetti pensati e realizzati con un tale rigore, a prescindere dallo stile musicale. Intanto accontentiamoci, serate come queste ripagano di mesi di concerti di pura routine.