Eugene – Seven Years In Space (1q84, 2023)

Quanti anni ha Eugene? Domanda certamente oziosa ma che ascoltando Seven Years In Space è inevitabile porsi. È un reduce degli anni ’80 che porta avanti il culto aggiornandone il vocabolario o un giovane che ha studiato la materia fino a farla propria e a rielaborarla in chiave attuale? Probabilmente non è possibile rispondere, semplicemente per il fatto che, passando un lungo periodo nello spazio, lo scorrere del tempo così come lo intendiamo sul nostro pianeta si altera inesorabilmente. La stessa cosa capita, in certa misura, alla musica: si diceva degli Ottanta, certamente il cuore del lavoro, una sorta di età di mezzo della musica sintetica, ma i riferimenti che troviamo nel disco sono anche precedenti e successivi; d’altra parte, se un anno fra le stelle non equivale ad uno sulla Terra, figurarsi sette.
Al netto di tante elucubrazioni, quello di Seven Years In Space è pop di alta levatura, colto nel saper combinare riferimenti che vanno dal Bowie elettronico alla musica classica, ma mai spocchioso, anzi, sempre estremamente fruibile anche quando tocca i toni più scuri. Dalla sua stazione orbitale affollata degli strumenti più disparati (vi rimando alla pagina dell’etichetta per una lista completa) e da qualche ospite (Armando Croce alla batteria, Claire Lyndon, Beatrice Sofia Ricci e Laura Serra alle voci, Alessandro Camerinelli alla chitarra, Nicola Valente al basso), Eugene ha captato segnali che andavano perdendosi nel cosmo e, campionandoli ed inserendoli in strutture di sua creazione, ha dato forma a un’insolita library music, colonna sonora di un’epoca in continuo divenire.
Dalle distanze siderali i concetti di prima e dopo, cultura alta e popolare perdono senso e vanno a convergere in un unico spazio: da Maria Giovanna Elmi all’ispettore Callaghan, da Strauss ai Sonic Youth, dalla sigla di S.W.A.T. a quella di Che Tempo Che Fa. Le canzoni stesse sono mutevoli e non incasellabili: possono partire come feroci punk digitali e trasformarsi in eleganti escursioni nel pop più raffinato (Dive) o intervallare EBM spigolosa e ritornelli riempipista (Diagram), oppure spostare il rock inglese dei tardi ’60 due decenni avanti (How Would You Define It?) o colorare il synth-pop di inedite tinte epiche (Gone).
Inutile stare a discutere su quanto questa musica, con la dovuta visibilità, potrebbe trovare un pubblico ben più ampio degli appassionati di certe sonorità: Seven Years In Space è già oltre, a comporre la colonna sonora delle nostre vite in chiave pop. Non esiste, ne converrete, musica più eterna.