Drieu, coltivare il conflitto in un tempo vile

Gli individui che compongono il raggruppamento musicale Drieu provengono dalle esperienze più disparate: post-hardcore, oi!, hardcore italiano, industrial nelle sue più varie diramazioni. Gravitano in una zona che va dal Basso Piemonte all’Insubria e risiedono in città – Alessandria, Milano, Como – legate da antichi rapporti, non sempre distesi, almeno dai tempi del Barbarossa. Hanno scelto come ragione sociale la prima parte del cognome dello scrittore francese Pierre Drieu La Rochelle, personaggio complesso e tormentato, scrittore dal talento ormai riconosciuto (nel 2012 la prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade ha pubblicato la raccolta Récits, Romans et Nouvelles) ma da noi noto semplicisticamente come intellettuale collaborazionista nella Francia della Seconda guerra mondiale. Hanno pubblicato due album stilisticamente diversissimi, eppure fortemente legati fra loro (La Distruzione nel 2019 e Solito Stile Ostile nel 2022) dove, soprattutto a tutto ciò che è universalmente ritenuto buono e positivo, non vengono fatti sconti. È quindi per rigirare il coltello nella piaga che abbiamo pensato di fare qualche domanda di approfondimento a Cesare T., bassista, voce e autore della maggior parte dei testi.

SODAPOP: Chi faccia parte di Drieu è più o meno noto, così come sono noti i trascorsi musicali dei membri, a cui avevamo accennato nella recensione de La Distruzione, per cui non mi dilungherei troppo. Mi incuriosirebbe solo sapere cosa ha portato a incontrarsi e unirsi persone con retroterra, almeno musicali, così diversi. E perché, domanda ineludibile, scelgono proprio Drieu come ragione sociale.
CESARE: Le storie personali dei componenti di Drieu sono marcate da esperienze comuni e rapporti che risalgono a molti anni fa. I rispettivi percorsi musicali nell’arco del tempo si sono differenziati, qualcuno aveva anche smesso di suonare, ma rimaneva nell’aria la sensazione che di fronte a un panorama musicale così deprimente si potesse fare qualcosa di significativo. Senza pretese di entrare a far parte di un mondo che non ci interessa ma anzi rimanendone accuratamente a distanza, si era comunque aperto uno spiraglio nel quale infilare un frammento esplosivo. Forse la molla principale è stata il disgusto per come nell’ambito della musica cosiddetta “alternativa” o “indipendente” che dir si voglia, l’appiattimento su posizioni di sudditanza alla dilagante mentalità ecumenica fosse quasi totale. Questo orrendo buonismo coatto che ci assedia, questa voglia di censura bacchettona che contraddistingue le azioni di chi a parole dovrebbe difendere valori di libertà espressiva è semplicemente insopportabile. Io personalmente mi sono formato con il punk, che continuo a ritenere fondamentale per quello che mi ha dato in termini di attitudine: libertà di espressione, rifiuto del tecnicismo fine a sé stesso, ricerca del conflitto delle idee anche attraverso il nichilismo che ne contraddistingueva gli albori.
La scelta di Drieu come nome è dettata da diversi motivi: volevamo innanzi tutto un nome spiazzante, non immediatamente riconoscibile ma semplice nella sua accezione grafica, questo per restare sul pratico. Poi c’era un secondo livello di lettura, molto più importante: rendere un modesto omaggio a chi scrisse Fuoco Fatuo, libro immenso e manifesto di un disagio esistenziale che preannunciava il deserto che ci circonda al giorno d’oggi.
E infine seminare il dubbio nei pochi che ci avrebbero ascoltato: come mai delle persone che vengono da esperienze musicali e politicamente opposte finiscono per schierarsi sotto il nome di un controverso scrittore suicida? La nostra risposta è univoca e lapidaria, la trovate nel poster inserito ne La Distruzione: NOUS SOMMES TOUS Drieu. Il riferimento sardonico al “Nous sommes tout Charlie”, slogan buonista per eccellenza e tristemente ipocrita, non dovrebbe sfuggire; l’interpretazione invece è libera e lasciata all’intelligenza e all’acume di chi vorrà seguirci.

SODAPOP: Fra i due dischi ci sono alcune marcate differenze nei contenuti e, inevitabilmente, nella musica che li veicola: La Distruzione si caratterizzava per un certo aristocratico distacco e si incarnava in un post-punk spigoloso ed elegante, mentre Solito Stile Ostile mi sembra affine alla comunanza di pensiero e azione di Yukio Mishima (che compare, insieme ad altri ispiratori, nel video del pezzo eponimo) ed è una notevole mazzata di hardcore stradaiolo. Il nuovo album va oltre l’isolazionismo ostentato nel primo disco: è cambiato qualcosa nei vostri piani o la vedete come un coerente sviluppo?
CESARE: Direi che i due dischi sono la raffigurazione di una situazione esistenziale: una gelida indifferenza verso quello che ci circonda, auspicandone come unica interazione possibile la distruzione. Non vedo molte differenze tra l’attitudine di La Distruzione o quella di Solito Stile Ostile. L’unico cambiamento percettibile è di natura musicale, ma bisogna sempre considerare che per noi la musica è mero strumento, senza altro compito che quello di accompagnare la nostra visione del mondo; non essendo musicisti nel senso stretto della parola, questo ci basta e avanza. Non escludo che in futuro si possa cambiare ulteriormente il nostro approccio al supporto musicale.
In fin dei conti sparare con una pistola o con un fucile mitragliatore comporta sempre lo stesso fine: colpire un punto preciso. Cambiano la gittata, la forza d’impatto, il proiettile stesso. Ma il risultato deve essere il raggiungimento esatto del bersaglio.

SODAPOP: Ne L’Estinzione (dal primo disco) cantavate “parole vecchie, lo so, parole strane, lo so”: anche nei testi di Solito Stile Ostile compaiono temi che molti non avrebbero problemi a definire così, eppure continuano a ripresentarsi, alla faccia della società liquida. Vediamo di prenderne in esame qualcuno.
Recensendo La Distruzione, vi associavo ai Disciplinatha del 12″ Crisi Di Valori/Nazioni, e ciò è tanto più vero oggi: in questo album il discorso delle nazioni, ma sarebbe forse più corretto parlare di popoli, torna spesso, con particolare forza in Stato Canaglia, ma anche nella stessa Solito Stile Ostile, che si apre con l’inno nazionale della Germania Est. Ha ancora senso, dunque, ragionare di popoli e pensare, in positivo, un mondo che si basi su questa idea?
CESARE: Questo è un discorso molto importante ma che allo stesso tempo rischia di diventare lunghissimo e di finire fuori tema. Devo limitarmi alla mia esperienza diretta: quasi trent’anni fa dedicavo un 7″ “Al popolo tradito”, dove per me il concetto di popolo era essenzialmente un concetto classista.
Ma eravamo agli sgoccioli del XX° secolo e quella visione veniva definita dal nuovo capitalismo e dai suoi servi come vecchiume ideologico e cianfrusaglia passatista. Il senso di solidarietà di classe era ormai in via di sparizione e si iniziò ad aizzare le masse verso la realizzazione individuale e al soddisfacimento dei bisogni soggettivi e non più di quelli comunitari. Sfaldato il collante classista, del popolo non è rimasto più nulla. L’uomo nuovo non doveva più avere né classe né patria, né nome né radici, poteva giusto rivendicare futili capricci ironicamente denominati diritti civili.
Sconfitta quindi l’utopia comunista rimaneva solo da abbattere l’ultimo diaframma che separava dall’entrata nel mondo nuovo (mi perdonino i Disciplinatha per questa involontaria citazione). Bisognava abbattere i confini non solo geografici ma soprattutto quelli che ancora definivano un popolo: la lingua, le tradizioni, i simboli. Concetti che alla luce dell’inarrestabile progresso tecno-capitalistico erano solo motivo di impaccio e inceppo nella programmazione mondialistica. In fondo erano cose da “barbari” serbo/croati/bosniaci, che furono infatti invitati ed aiutati a massacrarsi reciprocamente, giusto per fare un esempio.
Per chiudere velocemente la mia digressione rispondo alla tua domanda con un NO. Non credo che abbia senso ragionare di popoli, almeno non in quello che definiamo Occidente, a meno che una catarsi bellica non risvegli i popoli europei dal torpore letargico nel quale sono lentamente scivolati. Siamo passati dal “popolo tradito” al “popolo finito”.

SODAPOP: C’è una nuova guerra in Europa e qualcuno, con stupefacente opportunismo, riscopre la voglia di confini (stavolta “buoni”) e addirittura dell’orgoglio nazionale (altrui), salvo poi sfoggiare un’impeccabile ignavia nel momento di passare all’azione (“La pace è morta, la guerra può aspettare”, dite in Niente Di Nuovo). Inoltre, stiamo assistendo a una polarizzazione dove, anche da noi, ognuno dei due schieramenti si sforza di dare letture e risposte il più possibile semplificate. Voi suonate in un gruppo che porta il nome dell’uomo che scrisse “non sono un patriota qualunque, un nazionalista con il paraocchi; sono un internazionalista. Non sono soltanto un francese, sono un europeo. Anche voi lo siete, coscientemente o incoscientemente” e utilizzate un logo, la “D” inscritta in un trapezio, che è lo stesso della Dinamo Mosca, ma anche della Dinamo Kiev. Come vedete la situazione, non solo del fronte orientale, ma europea?
CESARE: Non penso ci sia molto da discutere sul fatto che si tratti principalmente di un tentativo da parte degli USA di destabilizzare in modo irreversibile gli equilibri economico-politici in Europa.
La Russia è Europa, l’Ucraina è Europa, così come lo era la Jugoslavia. Mantenere una situazione di guerra e divisione in Europa può tornare utile solo agli interessi strategici e bellici di oltreoceano. Finché la supremazia militare statunitense regge siamo una colonia militarizzata e dobbiamo fare quello che dicono i boia di Washington, da una nazione che ha donato al mondo Hiroshima o la Galbraith non mi aspetto nulla di diverso. E ti ricordo che viviamo in tempi in cui chi auspica una soluzione pacifica del conflitto viene bollato come terrorista, devo forse aggiungere altro?

SODAPOP: Concludendo la recensione di Solito Stile Ostile scrivevo che non sapevo se le vostre fossero provocazioni o se faceste sul serio, ma che in fondo non importava. Che non importi è vero, ma, a dirla tutta, non credo lo facciate per provocare: quando in Stato Canaglia citate la Corea del Nord, i combattenti afgani e i pasdaran, ci vedete del buono, vero? Tra l’altro, nello stesso pezzo, avere inserito un campionamento di Carmelo Bene che declama “Crepi la democrazia! Crepi la Repubblica! Crepi il Presidente della Repubblica!”: non c’è niente da salvare in questa forma di governo?
CESARE: Siamo sinceramente antidemocratici da sempre. Sarebbe ora di prendere coscienza che la cosiddetta democrazia parlamentare è da sempre uno specchietto per le allodole. Le scelte fatidiche che determinano le nostre vite vengono prese aggirando e negando la possibilità di un intervento diretto della fittizia rappresentanza “popolare”. Alla formazione di una nostra scelta antidemocratica ha contribuito la mondializzazione e l’accentramento dei poteri economici verso situazioni praticamente monopolistiche. Come è possibile ignorare (anche alla luce delle emergenze perenni che ci vengono propinate) che tutto viene deciso, in barba agli organi che dovrebbero “democraticamente” farlo, da un’oligarchia politico-finanziaria che detta a suo piacimento le linee programmatiche del nostro presente e futuro? E che cerca persino di riscrivere il passato attraverso demenziali campagne supportate e pubblicizzate dagli apparati mediatici? La democrazia non è mai esistita, è la favoletta che si racconta ai bambini prima di andare a dormire per dare loro un sereno riposo, a volte eterno. Per questo ci sentiamo di approvare chi ignora questa versione della democrazia e se ne fa un baffo, indipendentemente dalla propria visione del mondo. Lunga vita al Presidente, lunga vita a chiunque detesti la democrazia.

SODAPOP: La morte è il grande rimosso della nostra società: le religioni sono ormai fuori causa, per il capitalismo rappresenta l’orrore estremo, la fine dei consumi, mentre i circoli più radicali la vedono al massimo come il risultato dell’oppressione o della violenza ma la sua natura non è mai indagata, si preferisce ignorarla: prima o poi arriverà, inutile starci a pensare. Nei vostri testi invece la prendete in considerazione sotto vari punti di vista, non ultimo quello estetico (“andarsene con stile”, come cantate in Solito Stile Ostile), ed è sempre indissolubilmente legata alla vita, una presenza costante che mi fa venire in mente Morire dei CCCP: “la morte è insopportabile per chi non riesce a vivere”. Che senso ha per voi?
CESARE: Pensare di vivere senza considerare la morte è per me semplicemente inconcepibile. Questo non vuol dire passare la propria esistenza attanagliati dal terrore della fine o scadere nell’ipocondria di massa che stiamo tristemente sperimentando. La nascita e la morte, volenti o nolenti, sono i due punti che delimitano le nostre vite. C’è un senso alla nostra venuta al mondo? Possiamo discuterne per giorni, ma penso che intimamente ognuno di noi creda che ci sia; se così stanno le cose è altrettanto importante dare un senso alla propria morte. È un traguardo che aspetta di essere tagliato ed è importante farlo, compatibilmente con gli scherzi del destino, in piena coscienza e dignità. Per assurdo la morte può dare un senso anche a una vita insensata, figuriamoci a una vita che ci ha visti lucidamente coscienti che di quello che facciamo rimarrà poca o nessuna traccia. Il testo di Solito stile ostile in ogni caso dice già molto sulla mia visione della morte. Parte da una visione della realtà a una previsione della propria fine, c’è dentro tutto: basta prestare orecchio.

SODAPOP: Altro concetto sicuramente fuori moda, ma che in Drieu è ricorrente, è quello di onore/disonore: in una società vuotamente materialistica e votata, in ogni suo aspetto e ad ogni livello, unicamente al conseguimento di un risultato, un concetto metafisico come questo non può trovare spazio. Quindi, che senso può avere rispolverarlo? Dove poggia un’idea del genere, oggi?
CESARE: Qui parlo a strettissimo titolo personale: così come ognuno è libero di interpretare una canzone come meglio crede, anche l’interpretazione di un concetto astratto come l’onore la lascio alla soggettività di chi legge.
Per quanto mi riguarda, avevo già dato una definizione dell’onore (pur senza citarlo direttamente) ne L’Estinzione, un brano che si trova sul nostro lavoro precedente dove parlavo di “onestà, coraggio, orgoglio, spirito”, e ora cercherò di espandere il concetto.
Queste sono peculiarità per me imprescindibili per ritenersi umani, nel senso più alto della parola. L’onestà bisogna averla innanzi tutto verso sé stessi, riconoscendo i nostri sbagli ed essendo pronti a pagarne le conseguenze, senza cercare infantili scuse o scaricando le proprie responsabilità sugli altri, sulla società, sui marziani. Ovviamente bisognerebbe sforzarsi di essere onesti anche nel rapporto con gli altri, ma questa dovrebbe essere una naturale conseguenza di una predisposizione maturata da un costante esame di coscienza a cui sottoporsi. Essere onesti significa essere in pace con il proprio animo ed essere quindi pronti a tutto. Naturale seguito a questa fase e indispensabile complemento, il coraggio. E qui non mi limito all’aspetto puramente fisico spartanamente inteso, ma espando il concetto a tutte le sfere dell’essere quotidiano. Manifestare il coraggio di sostenere la propria visione del mondo, le proprie convinzioni senza cedere al conformismo e alla codardia di fronte all’avversario, al padrone, al nemico. Il coraggio conferisce rispetto e dona dignità, e anche chi si scontrerà con te su qualsiasi terreno possibile non potrà intimamente non riconoscertelo e restarne intimorito. Parallelamente l’orgoglio che dal coraggio deriva sarà l’infrastruttura nascosta, lo scheletro d’acciaio che regge la facciata della nostra esistenza. Prepotenti mai, orgogliosi sempre: soprattutto della propria onestà, delle proprie scelte, delle proprie origini. Io per esempio sono orgoglioso di essere un figlio del proletariato, anche se oggi questo per molti non ha più nessun significato.
Insomma, tutto questo di cui ho finora scritto concorre a definire il mio concetto di onore. In pratica una sintesi di queste qualità, che possiede una forza quasi trascendente. L’onore è un’energia spirituale (e qui completo il quartetto delle parole da L’Estinzione), o almeno io l’ho sempre concepito così. Energia che ci sosterrà nello srotolamento dell’esistenza verso l’eterna solitudine del punto di non ritorno, non piegati dalla disperazione della fine ma accompagnati dalla consapevolezza del valore e della dignità di una vita vissuta onorevolmente.
Oggi ha senso tutto ciò? Perché non dovrebbe averne? Siamo così imbevuti di mercato e tecnologia da pensare di farla franca al destino? Nonostante quello che ci viene quotidianamente propinato, nonostante i peana sulla tecnologia che ci rende migliori, più intelligenti, più longevi, rimaniamo un costrutto materiale di sangue e ossa, pronto a disfarsi in ogni momento.
Andarsene con stile, dunque. Con ONORE.

SODAPOP: Nel video di Solito Stile Ostile compare una carrellata di autori che vi hanno ispirato e, fra loro, ce ne sono alcuni che molta gente non esiterebbe a definire fascisti o, alla meno peggio, ambigui: Drieu La Rochelle fu processato come collaborazionista, Emil Cioran fu vicino alla Guardia Di Ferro, Céline era un convinto antisemita, Mishima un nazionalista che arrivò a darsi la morte in nome della rinascita del Giappone; nell’odierno panorama culturale, che rifugge ogni complessità e tende al conformismo, non troverebbero spazio a causa della loro biografia ancor prima che del contenuto delle loro opere. Chiaramente la cosa non vi tocca e immagino non abbiate una grande opinione dell’attuale stato della cultura, vero? È per questo che andate a cercare ispirazione indietro nel tempo?
CESARE: Inutile in questo frangente entrare in una diatriba sul valore culturale delle opere dei personaggi che hai citato. Ci sarebbe poi da discutere molto anche sul rapporto tra l’opera e la personalità dell’autore e la sua condotta esistenziale. Io ho sempre distinto le due cose e non giudico certo il valore di un libro o di un disco dal comportamento dell’autore nella sua sfera privata o dalle sue inclinazioni, siano esse politiche, sessuali o quant’altro. Certo esistono anche delle esistenze in cui l’autore stesso diventa opera e volontà fisica di affermazione delle proprie convinzioni, e penso che Yukio Mishima l’abbia dimostrato in maniera incontestabile. Per quanto riguarda la situazione attuale della cultura io amplierei il discorso alla società attuale, che ne è la sua immagine. Un dilagante conformismo a regole rigidamente dettate, la messa al bando di qualsiasi scostamento dal politicamente corretto etichettandolo con amenità che vanno di volta in volta dal “negazionismo” al “complottismo”, dal “collaborazionismo” all’immancabile briscola del “fascismo”, giocata su tutti i tavoli in cui bisogna confrontarsi con una critica severa del sistema capitalistico e transnazionale. La società è immagine, la cultura è specchio. A parte alcune lodevoli eccezioni da andare a scovare negli angoli oscuri di poche librerie o negli scaffali dei pochi negozi di dischi rimasti, di questo momento storico c’è ben poco da salvare. Rimane la consolazione di sapere che la quasi totalità della produzione “culturale” odierna finirà sepolta dalle sabbie del tempo senza lasciare traccia alcuna. Cosa che non si può sicuramente affermare per gli autori citati nella domanda.

SODAPOP: Un aspetto interessante di Drieu è quello visuale, che talvolta ha la capacità di ampliare i concetti dei testi attuando tutta una serie di rimandi, come nel caso dell’adesivo “Stato Canaglia Tour 2023” che fa riferimento a una canzone che parla della decadenza dell’Italia ma raffigura la sagoma degli Stati Uniti e all’interno i nomi delle città che, nel corso degli anni, gli americani hanno occupato, bombardato o minacciato. Abbiamo poi, sui social network, le grafiche spartane che riprendono, a mo’ di parole d’ordine, citazioni dei testi o altri, fulminanti concetti [se ci faceste degli adesivi per tappezzare le città, fareste allarmare più di un’anima pia] e infine le immagini, fra le quali ricorrono quelle di quartieri deserti o di edifici che crollano, che troviamo in un video del primo periodo e sulla copertina del nuovo disco. Voi invece non comparite mai, se non in scorci che non permettono di identificarvi. Ci volete parlare di questo aspetto, che non mi pare affatto secondario?
CESARE: Non riteniamo necessario dare un volto fisico a Drieu. Siamo un “Raggruppamento Musicale Non Solidale” del quale chiunque potrebbe fare parte se condividesse la nostra visione musicale e del mondo. Quindi i volti e i componenti stessi potrebbero anche cambiare, senza per questo inficiare la sostanza del nostro messaggio. Il primo disco era una specie di “concept” sul pazzesco romanzo di Dante Virgili che ha poi dato il titolo al disco. La scelta per la cover fu quella di una foto che ritraeva l’interno di un teatro bruciato, nessuna morbosità ma solo spoglia distruzione di qualcosa che era stato creato avere un senso e ora non l’aveva più. Parallelamente puntare sull’estetica del gruppo a livello personale poteva avere senso in un altro periodo storico, ora si rischia solo di cadere nel già visto o nel commemorativo.
A proposito delle scelte grafiche: io ho sempre amato la continuità e di concerto l’affermazione di un’identità a livello visivo.
Gli interni distrutti, le case abbandonate e gli edifici che crollano sono simboli potenti di quest’epoca, immagini quasi subliminali che devono creare un paesaggio interiore in chi ci ascolti.
Per quanto riguarda le citazioni è evidente il richiamo alla comunicazione totalitaria e all’epigrafe lapidaria, elementi visuali che mi affascinano molto.

SODAPOP: Una curiosità: c’è una ragione nella scelta dell’arancione, che colorava l’edizione regolare del vinile di La Distruzione ed è dominante nella grafica di Solito Stile Ostile?
CESARE: L’arancione è una mia personale fascinazione verso un colore che contiene vibrazioni fortissime e dal quale sono sempre stato attratto. Da appassionato di calcio quale sono mi innamorai immediatamente dell’Olanda di Cruijff per via della la sua splendida maglia oranje tanto per dare un’idea… e poi trovo che il contrasto dell’arancio sul nero sia bellissimo ed impattante, ottimo per una comunicazione visuale. Sulla scheda di Drieu potremmo mettere la divisa sociale come negli album delle figurine: maglia e calzoncini neri con bordi arancioni e calzettoni arancioni con banda nera.

SODAPOP: Concludiamo tornando a parlare di musica. Il nuovo disco è stato ben accolto (se non sbaglio è andato esaurito in pochi giorni), a primavera uscirà il vinile e le recensioni finora pubblicate sono state positive. Il rischio però è quello di predicare ai convertiti: l’idea che sta dietro a Drieu è potenzialmente dirompente, ma siamo in tempi di estremi settarismi che ci spingono ad evitare il confronto, e nei quali oltretutto la facilità di comunicare rende difficilissimo il farsi sentire (“sotto valanghe di parole sono scomparse le ragioni”, recita Taci). Voi come la vedete? siete soddisfatti o vorreste che si sentissero maggiormente le “parole che riescano a ferire” (come cantate in Solito Stile Ostile)? E In quest’ottica, riconsiderereste la possibilità di suonare dal vivo?
CESARE: Fin dagli inizi sapevamo di essere una proposta divisiva ed elitaria. La priorità per noi è sempre stata quella di una totale indipendenza e ed estraneità dal circuito musicale convenzionale. La scelta di autoprodurci riflette questo approccio, che se da una parte ci garantisce la massima libertà d’azione dall’altra limita sensibilmente la possibilità di diffondere la nostra musica. Non inseguiamo certo la visibilità o la notorietà; cerchiamo innanzi tutto di essere soddisfatti con quello che compatibilmente con i nostri mezzi economici, la nostra disponibilità di tempo da dedicare a Drieu e le nostre risibili capacità musicali riusciamo a realizzare. La dimensione del concerto dal vivo non ci appartiene più e preferiamo raggiungere le persone richiedendo loro uno sforzo che vada al di là di venire a bersi una birra e prestare distrattamente orecchio alla musica. Solo una performance di stampo multimediale potrebbe valere la pena di riconsiderare la nostra scelta, ma dubito che questa occasione si presenterà mai per i motivi che citavo sopra. Ci basta, modestamente, “riempire il mondo con la nostra assenza”.
Intanto ti ringrazio per questo dialogo che forse non ha avuto principalmente la musica al centro del discorso, ma che mi ha fatto egualmente molto piacere. Ad maiora!