Mike Cooper – Tropical Gothic (Discrepant, 2018)

Nomen omen, titolo che rispecchia a pieno le intenzioni di Mike Cooper nella stesura di Tropical Gothic. Un lavoro che mostra il suo lato più ombroso, dove le corde scivolose e gli ammennicoli elettronici vengono adoperati per descrivere la fitta ombra proiettata da un’asfissiante vegetazione equatoriale: tribalismo indigeno, sinistri rintocchi di corde ed elettronica povera, tutto a portare acqua al mulino di un’ambientazione cupa e ostile.
La falsa partenza rock psichedelica di The Pit in realtà è solo un frammento di uno sfrenato rituale indigeno mentre si ci addentra nella foresta e infatti la successiva Mask Of Flesh descrive un clima sospeso, pesantemente cupo e ambiguo. L’atmosfera prosegue così per diverse tracce, una traversata ansiogena a passi lenti in un ecosistema pericoloso con la paura di essere mangiati vivi o aggrediti da qualche feroce predatore. Una tensione che si libera nell’inaspettata entusiastica apertura di Runnig Naked, perfetto finale di uno schizofrenico cannibal movie: ritmo pompato e tripudio di assoli hawaiani, talmente sopra le righe all’interno dell’album che infatti è solo un falso finale. Il successivo colpo di scena di Onibaba ripiomba il tutto in un ambiente densamente plumbeo; e poi siamo in realtà appena a metà dell’opera. L’altra metà, Legong/Gods Of Balì, è un lungo e opprimente flusso ambient che procede lento, arricchendo l’oscurità con fraseggi di ninnoli in reverse, scansioni di carillon oscuri, risuoni di amuleti caccia spiriti e percussioni occulte. Una psicosi da Animal Collective in ipotermia che alla fine si ritrovano soli ad ascoltare i suoni della giungla con l’ansia in corpo. Un disco riuscito e molto divertente, che sa come sortire effetti interessanti e mostra un lato di Cooper che vale la pena di guardare.