Lebenswelt – Unspoken Words ( Under my Bed, OuZeL, 2022)

Giampaolo Loffredo, ancora. 6 dischi in 19 anni, praticamente una vita adulta. Unspoken World inizia con una nenia pianistica e quasi giocosa, mentre Keep on Dancing ci trasporta in quel mondo, chiamatelo come volete, del sadcore. Ritmi trattenuti, enfasi e rilasci, come se di botto su un racconto toccante buttassimo secchiate di nero ed iniziassimo a mandare tutto in feedback urlando. Del resto che ci vogliamo fare? Il saper controllare l’intensità è uno degli elementi del mestieri e Lebenswelt ne ha ben donde. In questo caso si appoggia ad una pletora di collaborazioni più o meno prestigiose. Da Pall Jenkins degli indimenticati Three Mile Pilot a Stefano Santabarbara aka My Dear Killer ( che con la sua Under my Bed Recordings co-produce il lavoro) ad ONQ, a Richard Adams degli Hood. C’ê un rigore inglese ed invernale in questo disco. Queste parole non dette sembrano fredde e lineari, taglienti nei loro binari, quasi a produrre brividi all’ascolto. Somehow apre al lirismo, candida e rigida. “…Somehow love, leaves me petrified, scares me to death” da rigor mortis che paralizza, come di fronte all’ineluttabilità degli eventi. Scrivo queste righe mentre la musica va in cuffia e sopra casa nostra è divampato un incendio, a pochi km di distanza. Questo per me è Lebenswelt: il non fermarsi, il continuare nonostante tutto a mostrarsi per quello che si ê in ogni situazione, fedeli a se stessi anche contro la furia degli alementi. Forse qualcuno potrebbe leggere questa immagine come ieratica e fiera staticità, io preferisco vedere una consapevole apertura al mondo, un’offrire il proprio nocciolo scoperto, toccante quando accompagnato dal controcanto di Antonella Amendu in Gone, quasi portasse un sole in lontananza nel mondo. In Come Back Again a tornare è Pall Jenkins, su un tappeto musicale che, di grazia, penetra toccando ogni punto di fragilità ed ogni strato di anima. Soul, nel suo significato primigenico. Canzone che, perdonate la bestemmia, potrebbe avere anche parecchia fortuna in un possibile airplay illuminato.

C’è questa ossatura digitale in Unspoken World che, più che agli Hood (con i quali comunque possiamo trovare delle attinenze) possiamo ricongiungere ad un ipotesi illuminata di cantautorato sintetico, sincretismo fra Dakota Suite, Robert Wyatt, Portishead e Cousteau. Quando si rientra nell’acustico, come ad esempio sulla title track, si ha la sensazione di ritrovarsi su una spiaggia deserta, in bassa marea, d’inverno. Quasi un mantenimento del minimo sindacale di romanticismo per spremere sofferenza e sentimento con il minor impatto possibile. L’equilibrio di questo lavoro è perfettamente dosato da quello che, come appare svelato dalle note di copertina, da progetto del solo Giampaolo è diventato un vero e proprio gruppo. Il mio desiderio, a questo punto, sarebbe quello di poter godere di un loro spettacolo, magari in un vecchio teatro, bicchieri alla mano e vestiti bene nonostante gli anni e gli acari. Ecco, sosterrei queste parole non dette in un decorosa ed alcolica eleganza, piangendo senza remore ed abbracciando la mia bella, al culmine dell’enfasi.