Smote – Genog (Rocket, 2023)

Giunto al secondo disco dopo l’esordio Drommon del 2021 appare presso i nostri lidi Daniel Foggin, bardo di Newcastle dietro al progetto Smote. Me tapino, che a tale città fino ad ora associavo unicamente Alan Shearer e la saga (mai da me terminata tra l’altro) di Santiago Muñez nel trittico sportivo cinematografico Goal. Nulla di più lontano da qui, per fortuna, o per lo meno: dei campi di periferia rimane il fango, quella mistura fradicia e pesante che però qui viene trattata e manipolata con lunghe bave di chitarre acide per le quali, ci scommetto; Julian Cope sorriderebbe ben contento. Atmosfera sacrale e vibrante, pronta a scegliere se buttarsi in cavalcate oppure arrotolarsi come serpenti. Genog, la title track, fila via così introducendoci nel mondo di Smote. Avanzando i paseggi si fanno fatati tra flauti e percussioni, mantenendo un centro al proprio viaggio, che ormai si libra a qualche centimetro dal suolo, per poi subire delle vere e proprie sciancrate acide in diagonale, come quelle dei più rudi difensori d’altri tempi. Alto e basso, tamburi e pifferi, tribù e farfalle in Fenhop, giri sulfurei e sinistri nella seguente Lof che dimostra, se ancora fosse necessario, che a spingere un pochino di più si potrebbe finire dritti dentro l’inferno. I brani sembrano semplici, ma quando ci si accorge di essere finit nelle loro spire è troppo tardi e si resta invischiati in qual pugno di sabbia, irrorata con strane pozioni. Si sale, si scuote, ci si infla in una trance dalla quale uscire non è salutare, meglio viverlo fino in fondo il viaggio, poi tutto si calmerà e tornerà tranquillo e sereno, tranquillo e sereno. Daniel Foggin è artigianto che sa calibrare le dosi di sostanze e potenza in maniera oculata, servendoci su un vassoio d’argento una fuga dalla nostra vita di una quarantina di minuti ottimamente spesi. Rocket Recordings torna ad essere garanzia prepotente di psichedelia martellante ed il nostro ghigno si fa sempre più largo.