Forse non è necessario fare introduzioni, ma visto che nel mondo che è venuto dopo l’esplosione della rete il tempo oltre che scorrere “lungo i bordi” corre molto più veloce e la memoria storica è da sempre quella che è (come forse è giusto che sia), forse è meglio dire prima di tutto un paio di cose. Al di là dei disquisizioni se sia peggio vivere in un eterno presente o essere schiavi di una memoria ipertrofica, Scott McCloud ha suonato in alcuni dei miei gruppi preferiti e ha realizzato alcuni dischi che tutt’ora restano il simulacro dei sogni bagnati di parecchi musicisti della generazione post-hardcore e noise fra tardi anni Ottanta e primi Novanta. Non pago di aver suonato in almeno due gruppi di culto come Soulside e Girls Against Boys (come se i New Wet Kojak fossero da meno…), questo neo papà è al secondo giro di boa con il suo nuovo progetto, i Paramount Styles. Seppur sia passato parecchio in sordina rispetto al potenziale di molti dei pezzi scritti da Scott, i Paramount hanno reso felici molti orfani di quel cantautorato rock “diverso” che in altre epoche aveva reso celebri gruppi come i dEUS (con cui non a caso il nostro eroe aveva collaborato). Purtroppo lo spazio di un’intervista è troppo breve per potersi sbizzarrire a fare domande su ogni singolo progetto, ma McCloud ha anche collaborato a progetti diversi come il gruppo electro-punk Operator, in cui il nostro lavorava in copia con niente poco di meno che Teho Teardo e ha prestato la voce anche al lavoro d’esordio degli String Of Consciousness di Philippe Petit.
SODAPOP: Scott, partiamo dalle radici: molta gente ti conosce per i Girls Against Boys e New Wet Kojak, ma essendo una vecchia ciabatta mi ricordo che hai suonato in gruppi seminali come Soulside, Rain e prima ancora Lunchmeat… vero? Come sei entrato in contatto con il punk? E ti ha cambiato la vita in bene o in male?
SCOTT: Penso che il punk si per la gente giovane un rito di passaggio, o almeno lo è stato per me. I Soulside erano il gruppo più importante, e siamo esistiti a Washington DC ed eravamo su Dischord Records fra il 1987 e il 1989 circa. Il mio disco preferito dei Soulside è Hot Bodi-Gram. In un certo modo era punk rock progredito per quei tempi, per nulla generico, era la musica per la quale ai tempi era conosciuta la Dischord. Ricordo bene che fu quando iniziammo a sentire utilizzato il termine Emo, per quanto non c’entri nulla con quello che è diventato dopo. Ma quella era l’inizio dell’idea che tutto questo, intendo il fatto di fare musica, fosse qualcosa di realizzabile.
SODAPOP: Quindi dopo ti sei mosso a New York, Girls against Boys e New Wet Kojak: penso che chiunque abbia avuto a che fare con la scena indipendente duranti gli anni Novanta abbia sentito parlare di te. La “grande mela” non è esattamente un posto facile, ma tu eri parte di quella che veniva considerata la “next big thing”.
SCOTT: Sì, mi spostai a New York per frequentare la scuola di cinema. Infatti a pensavo di essere già finito per la musica e volevo fare film. Ma dopo un paio di anni a New York io volevo suonare ancora… così iniziammo i Girls Against Boys. Il nostro primo show fu nel 1992 al CBGBs in una serata vuota. Conoscemmo un po’ di gente ed avevamo ancora un po’ di contatti dai tempi dei Washington DC (per quanto ai tempi a nessuno di New York interessasse dei nostri gruppi precedenti di Washington) e così una cosa portò ad un’altra: fummo raccomandati alla Touch And Go ed erano i suoi anni d’oro (1993-1997 o giù di lì). I successo dei Nirvana cambiò tutto nel 1991 o giù di lì e da parte delle major c’era tutta questa attenzione nei confronti quella che prima era considerata solo musica indipendente e noi fummo travolti dall’onda. L’economia americana (e quella del mercato discografico) stava esplodendo in quella che poi venne chiamata “esuberanza irrazionale”. I Girls Against Boys nel 1995-1996 divennero una delle più grandi indie rock band negli Stati Uniti e probabilmente in Europa e firmammo per la Geffen. Penso che sia successo tutto in questo modo. Eravamo molto motivati e nel posto giusto al momento giusto.
SODAPOP: Ed ora Paramount Styles: la musica è più soffice, tu vivi in Europa e sei anche diventato padre: “bambina, il punk non è morto e ci vedremo in giro” (New Wet Kojak), hai mantenuto le promesse?
SCOTT: Non le chiamerei promesse, tutto quello che dico, di solito è una buona dose di umorismo caustico o per lo meno mi piace pensare che sia così. Presi una chitarra acustica all’inizio del 2000 e ebbi l’idea che sarei dovuto esser capace a fare qualcosa di buono anche senza amplificatore ed effetti: non so, è un po’ l’idea di andare in contro ai tuoi limiti… e nel tempo rincominciai a fare musica, da lì arrivai ai Paramount Styles. Non è così rumoroso come i GVSB ma comunque mantiene una buona dose di qualità antisociali, non è esattamente da cantante songwriter. Penso anche che ci sia ancora un po’ di punk in questo, quanto meno come attitudine. E sì, penso che come padre potrò finalmente giocare al “baby punk” per davvero, qualunque cosa sia.
SODAPOP: Il tuo umorismo caustico mi ha sempre fatto sorridere. Non mi serve neppure leggere i testi per ricordarmi frasi come “eravamo grandi, forse non i più grandi, ma eravamo grandi”, o “questo è quello che mi piace vedere, che cosa puoi fare per me!?”. Per me è difficile decidere se quello che canti sia più cinico, ironico o “distruttivo”. Qualche volta la gente con un buon senso dell’umorismo nasconde un lato depressivo: “la tristezza del clown”. Ho letto che hai passato un brutto periodo qualche anno fa, vero?
SCOTT: Per me scrivere canzoni era ed è una cosa personale, spesso nel passato ci sono dei riferimenti specifici che solo la persona a cui erano riferiti potrebbe capire esplicitamente. Molte, moltissime canzoni dei GVSB sono dirette a particolari persone che non vengono nominate. Questo era il modo in cui io trovavo importanza in quello che stavo facendo, da una parte, era un dialogo che avevo con gli altri e con me stesso che, a quanto vedo, va avanti da vent’anni. All’epoca era molto romantico per me. Sennò nulla sembrava avere senso. Ho sempre desiderato cantare qualcosa che mi facesse sentire un po’ a disagio. La scena indie rock era sempre grande, ma l’ho sempre trovata un po’ troppo auto-compiaciuta, qualche volta anche pretenziosa (o peggio ancora… “preziosa”). Cantavo di invidia, desiderio, avidità, gelosia… tutte le cose peggiori che trovavo in me e di cui uno si suppone non debba andare orgoglioso e che presumo anche gli altri ritrovino in sé stessi. Suppongo perché per me comunque era una questione di essere onesto come me stesso. Nulla di nuovo, molta gente che scrive o fa cose di questo tipo è propensa ad essere negativa, cupa, traumatica. E dai, chi ha voglia di sentire della gente felice? Per ciò che riguarda i tempi difficili, sì, dirò semplicemente che non è stato nulla di interessante. In qualche modo ho avuto dei problemi di dipendenza, è stato davvero noioso e ha portato via molti anni che avrei potuto impiegare per fare qualcosa di più produttivo. Così facendo mi sono perso i primi anni dell’ultima decade. Nulla di particolarmente bello, una perdita di tempo.
SODAPOP: Il mese scorso mi è capitato di pensare che qualche volta gli americani enfatizzino indirettamente la loro nazionalità anche quando arrivano da una contro-cultura. Qualche volta ho pensato che fosse simile a come le bestemmie indirettamente sottolineino la centralità di Dio. Titoli come “Fallimento in stile americano”, “Questi sono gli Usa” sono ovviamente critici, ma cosa pensi di questa idea strampalata?
SCOTT: Sono d’accordo con te, ma d’altra parte sarebbe difficile per una persona come me scrivere un pezzo che si intitoli “Questa è l’Italia”. Io penso che sia utile scrivere di ciò che conosci. Ma sì, è un punto molto interessante. Che cosa significa mettere le lettere USA in una canzone? Perché lo facciamo? Venendo dalla contro-cultura si presuppone che sia critico ma hai ragione, non è così semplice. Penso che gli USA siano un posto enorme ed affascinante pieni di città e di storie, musica, arte, gente… che non possono essere ridotte ad una cosa sola. Las Vegas non è Detroit. Parlando di testi e di geografia io sono riuscito a passare in alcuni posti. Mi è sempre piaciuto includere nomi di città in molte canzoni perché primo colloca in qualche modo una storia ed in secondo luogo perché credo che questi luoghi siano pieni di mitologie interessanti: Los Angeles, New York, Berlino, Praga, Amsterdam… da dentro la mia testa sono tutte finite in alcune canzoni. La gente sogna di città, solitamente quelle in cui non abita. Ad ogni modo per essere onesto, i riferimenti agli USA non sono mai stati così critici. Penso siano un posto molto affascinante e spesso la gente è troppo critica: “c’è qualcosa che và detto di Los Angeles” (GVSB/Tucked-In). Nel ventesimo secolo gli USA sono stati costruiti su quest’idea del sogno americano, che non era un nonsense totale, era un’idea… e non era un’idea solo americana. Se non sono vissuti in ragione di quello, c’era quanto meno da aspettarselo. Con canzoni come “This is the USA” mi sembra di criticare tanto come di glorificare gli USA ma tutto sommato mi va bene.
SODAPOP: Ora vivi a Vienna vero? L’Austria in un certo senso è un posto strano, uno strano mix: un po’ museo a cielo aperto ma allo stesso tempo ricca e investe in eventi culturali. Come vivi lì? Ti è mai capitato di essere riconosciuto come Scott dei Lunchmeat?
SCOTT: Mi piace Vienna, vecchio centro storico ma allo stesso tempo molta vita sul donaukanal che scorre lungo tutta la città. Penso che la qualità della vita qui sia piuttosto buona, è più sopportabile di altre capitali europee e poi ci passano un sacco di amici con le loro band dato che comunque è sulla strada. È situata al centro. Per esempio suonerò con gli Zu a Bratislava stasera, mi inserisco come chitarrista. Molto raramente qualcuno mi dice: “hey, tu sei Scott dei Girls Against Boys, vero?”.
SODAPOP: Ricordo che Eli era in tour con voi (la sua foto nudo in Grecia dietro alla raccolta dei Soulside), Johnny Temple è stato tuo compagno in almeno altri due gruppi e ti ho visto dal vivo con Alexis alla batteria. Li senti ancora ogni tanto? e che mi dici di Bobby Sullivan? come ti poni rispetto al passato? Sai che per noi europei il vostro non aver radici è difficile da accettare!
SCOTT: La nostra amicizia risale agli anni dell’adolescenza. Eravamo tutti amici a scuola. In qualche modo era come se Eli fosse il quinto membro dei Soulside facendo il fonico dal vivo e registrando. All’epoca suonava solo la tastiera, che non era figo per un gruppo punk nei tardi anni Ottanta, ma era il pezzo forte per iniziare i Girls Against Boys, che all’inizio era stata progettato come un gruppo per incorporare la tastiera, la nostra idea era un po’ come quella dei primi Ministry, ma si sviluppò in qualcosa di più pesante e più rock con tutti i tour che facemmo nei primi anni Novanta e per l’epoca di Venus Luxury era un sound venuto a maturazione. Johnny e Alexis suonavano anche nei Soulside ed eravamo quindi noi quattro che iniziammo i Girls Against Boys nei primi Novanta con il disco 80’s Vs 90’s. Certo che siamo ancora in contatto. Non vedo Bobby da tanti anni, vive in North Carolina. Per quel riguarda il passato, posso solo limitarmi a dire che “il passato è l’unica cosa che sta cambiando, il futuro è sempre lo stesso” nel senso che tutto ciò che vediamo in retrospettiva sembra poter essere analizzato sotto diversi punti di vista, ad ogni modo il futuro è sempre lo stesso, si muove dritto davanti a noi e non si può sapere come andrà.
SODAPOP: Qualche volta tu stesso ironizzavi sul fatto di ricordare Richard Butler degli Psychedelic Furs, ma oltre a quello, al jazz, al post-punk, alla musica anni Ottanta e al noise, quali sono state le tue principali influenze?
SCOTT: Gli Psychedelic Furs sono stati un’influenza molto precoce, in qualche modo li scoprii prima di entrare in contatto con il circuito punk, così si può dire che sia un’influenza latente degli anni Ottanta. Ed a parte quegli ovvi punti di riferimento di Washington DC, anche i Fall furono uno dei gruppi che mi influenzò per anni. Dopo questi gruppi ero anche parecchio coinvolto da quella che veniva chiamata musica industriale: NIN, Big Black e anche cose come gli Skinny Puppy per quel che ricordo (ma non ho la più pallida idea di come suonino oggi). Ad un certo punto divenni parecchio ossessionato dall’idea che i GVSB stessero diventando una disco punk band elettronica, era il periodo di Tricky, Prodigy, Portishead… suonava tutto così fresco e lo era. Ma non ero realmente io, credo. Anche la musica sembrava invecchiare molto velocemente e molto di quel rock elettronico era comunque trascurabile, o comunque databile. Ma allora, all’incirca nel 1998, tutti pensavano che il futuro sarebbe arrivato con il 2000 così ci serviva un tipo di musica che suonasse più o meno come “il futuro”. Un paio di anni dopo il futuro era finito, si bruciò più o meno allora. Ciò che mi spinse a prendere di nuovo la chitarra in mano non lo ricordo esattamente, probabilmente qualche amico musicista a New York (come Paul Cantelon, un pianista e amico che suona su un paio di pezzi di Paramount Styles), semplicemente gente che lo faceva per amore della musica piuttosto che incastrarsi in uno stile. In generale, sono ispirato da qualsiasi musica che crei un’atmosfera e un mood.
SODAPOP: La nostra società sta parzialmente affondando nelle sabbie mobili che ha creato da sola, ma allo stesso tempo tutto cambia così velocemente. Dove ti vedi fra dieci anni?
SCOTT: Probabilmente starò facendo quello che faccio ora, provando a farmi un’idea di come vivere e come immaginare le mie idee o qualsiasi altra cosa che voglia sognare. Non so se la nostra società stia affondando davvero in qualcosa, sabbie mobili o altro, qualche volta penso che alcuni di questi cambiamenti siano più apparenti di quanto non sembrino. Forse gli esseri umani vivranno di più, eccetera e arriveranno molti grandi progressi nella medicina e scienze, ma mi chiedo se vogliamo cose così diverse da quelle che voleva la gente un tempo. Viviamo solo nel nostro tempo che credo ci renda auto-centrati e tipici, e penso che ogni tanto ci sentiamo come se nessuno come noi avesse vissuto prima. Credo che i nostri problemi, le prove che dobbiamo affrontare e i tempi in cui le cose accadono siano in un certo senso unici. C’è una vecchia espressione di New York che dice che se tu sei “uno su un milione” ce ne sono almeno dieci come te solo a New York. sei semplicemente anonimo. Mi piace. Così penso che fra dieci anni sarò da qualche parte ad affondare nelle sabbie mobili, come sempre.
SODAPOP: Qualche altra domanda che ti sarebbe piaciuto che ti facessi o qualcosa che nessuno ti ha mai chiesto? Forse qualcosa tipo: “come ha influenzato il tuo relazionarti alle donne la relazione con tua madre?” o qualcosa del genere?
SCOTT: Una semplice domanda che non mi hanno mai fatto è: “perché fai tutto ciò?..e perché continui a farlo?” E suppongo che la risposta che avrei dato è che fare musica è un puzzle che devi risolvere, come un prurito dentro al tuo cervello, non è diverso da giocare d’azzardo. Se l’alternative rock, l’indie rock, qualunque cosa fossero per analogia un casino (che in un certo senso penso sia anche appropriato) significherebbe che una volta che hai iniziato a giocare vuoi rimanere al tavolo anche se stai continuando a perdere, perché hai sempre l’impressione che ci sia qualche possibilità di vincere. Potrebbe essere lo show perfetto, l’album perfetto, o anche solo l’idea che non hai mai realizzato e che sapevi essere buona. La volta che pensi che tutto avrebbe funzionato perfettamente come desideravi. E avendo quell’impressione di vincere, non puoi mai smettere di giocare, non ti importa di quello che accade. E’ meglio credere a quella sensazione che smettere di giocare. Credere nella propria musica è proprio questo, una devianza imprevista e che ritorna. E’ la puntata più alta sulla quale hai giocato. Non puoi sapere quando il tuo numero possa uscire, e probabilmente non uscirà mai e comunque tu stai ancora giocando o quanto meno stai pensando a giocare e ancora e ancora e ancora di nuovo.