Makhno (nome di un anarchico ucraino già usato per una collaborazione fra Nicola Guazzaloca e Francesco Guerri) è il moniker dietro cui si cela Paolo Cantù e già questo fatto, insieme all’immagine di copertina, una porta di ferro chiusa da un lucchetto, ci dice qualcosa sulla poca voglia di apparire del personaggio. Un personaggio che pur avendo militato in alcuni dei gruppi più importanti della penisola, dai pionieri industrial Tasaday alla prima incarnazione degli Afterhours, ai seminali A Short Apnea, a tutte le formazioni più recenti, si è sforzato, riuscendoci, di mantenere un profilo basso, arrivando all’esordio solista appena qualche mese fa nel 10” della Phonometak Series. Ora, se avremo la forza di scardinare quella porta di ferro, ci troveremo al cospetto di uno degli album più intensi degli ultimi tempi, edito in vinile da un quartetto di etichette.
Abbiamo già notato come Cantù sia complementare al compagno di tante avventure Xabier Iriondo e tanto il disco solista del secondo è ricco di ospiti, quanto questo è realizzato in completa solitudine, fatto salvo per un brano. Sempre rispetto a Irrintzi, Silo Thinking è un lavoro maggiormente coeso, frutto di un’operazione di sintesi che si presenta come una tappa importante nella carriera di Cantù, e non semplicemente perché ne costituisce l’album d’esordio. Musicalmente è questo un disco di chitarre sature, mutuate dall’industrial degli albori che, su basi ritmiche ripetitive, si intrecciano con altre, più soniche e melodiche con rari inserti di clarino. Non siamo troppo lontani, per capirsi, dagli Uncode Duello di Tre, ma qua il discorso viene sviluppato e ampliato. Stilisticamente, Silo Thinking è un disco di moderno noise-rock che rifugge la forma canzone, ma che non rinuncia a gettare un ponte verso l’ascoltatore meno avvezzo a questi suoni, grazie a melodie orecchiabili (La Makhnovtchina) e riff di buona presa (Ulrike). Infine, dal punti di vista lirico, è un disco di nomi propri, di persone (Ulrike, Stiv, Custer) e di città (Zena), ognuno dei quali porta con sé parole che fanno incrociare la Storia con la esse maiuscola a quella personale, in un dialogo continuo fra passato e presente. Cantù si espone raramente come vocalist: si divide tra cantato e parti recitate, ma più spesso si serve di campionamenti. Le parole sono quasi sempre parole di lotta: la Congiura delle polveri del 1605 ricordata all’iniziale Remember, il canto anarchico de La Makhnovtchina irrobustito dalle chitarre, la voce di Ulrike Meinhof in Ulrike, le manifestazioni del giugno ’60 nel colorito racconto in dialetto genovese di Zena, con un finale epico che dà i brividi. Nella seconda parte sono le vicende più personali a venire alla ribalta, con la voce dello scomparso Stiv Livraghi dei Tupelo in Stiv, la vorticosa Father And Son o l’orgogliosa rivendicazione di Fine della Storia. La summa di tutto, conclusione che lascia aperte mille strade, è nel finale di Custer, con ospite alla voce quel Federico Ciappini che di Cantù è stato compagno nei Six Minute War Madness e occasionale collaboratore in A Short Apnea e Uncode Duello; un personaggio anche più schivo del nostro chitarrista che, le rare volte in cui si concede, fa rimpiangere la sua lontananza dalle scene. Solo a un ascolto disattento questo recitato di cinque minuti su base noise, potrà sembrarvi una copia dei Massimo Volume: Ciappini sfodera un testo ambiguo, in bilico fra delirio d’onnipotenza e sarcasmo nerissimo, spocchia e dolorosa presa di coscienza, interpertato magistralmente, toccando punte di autentica straniazione quando, sul finale, si rivolge direttamente a Cantù con un’invocazione disperata (“dammi due pistole, Paolo!”). Un brano mutevole, che ad ogni ascolto vi parrà significare cose diverse, e che chiude un disco complesso ma bellissimo, assolutamente da avere.