“Synthesizer music realised using Techniques inspired by the early collaborations of Robert Ashley and Paul DeMarinis. A humble tribute to their work”. Questa l’introduzione di Luciano Maggiore al suo nuovo lavoro, self-talk. Un parlare tra sé e sé che smuove e produce reazioni di causa ed effetto, che crea scarto e con questo scarto crea brusio e crea suono, come materia autogeneratasi. A volte questo suono appare come sfregamento, a volte come scolo, a volte come punta che scava e lascia traccia dietro di sé in un percorso di attenzione e di trasformazione. Il suono spezzato lascia una scia come bava disseccata, che si riesce a percepire grazie alla diversa colorazione ed ai grumi di suono. Nel secondo brano i suoni si fanno maggiormente bulbosi e plastici, scelta che ci trasporta immediatamente in altri ambienti, maggiormente classici e sintomaticamente smanettoni pensando alla strumentazione utilizzata. La scelta di prolungare i brani sulla lunghissima distanza porta all’inebriamento ed ad una sorta di ipnosi che balugina fra le orecchie e che sembra essere condizione che potrebbe accompagnarci fino alla fine del nastro. Nel terzo ed ultimo movimento par di sentire dei tricche tracche trasformati in codici digitali, sfiati e gorgoglii, rimbrottii che ci avvolgono completamente facendoci dubitare su chi regga le file del discorso. Ne usciamo frastornati, come se il nostro spacciatore di fiducia avesse fatto una generosa aggiunta alla solita medicina senza avvisarci. Bastano due schiaffi per rientrare in sé, certo, ma il viaggio è di quelli potenti e completi. Wanna try?