Life Without Buildings – Live At The Annandale Hotel (Gargle Blast, 2007)

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Non credo di scomodare dio quasi mai quando ascolto musica. Ma ogni tanto da quel suo fantastico trono tra i cori degli angeli va proprio fatto alzare. Più volte ho lasciato messaggi nel webspazio, dove, si sa, dio risponde a mezzo dei nerd, chiedendo il perchè dell'averci privato troppo presto di un gruppo di questa indubbie qualità. Muoiano tutti i filistei che glorificano insulse e pretestuose, nonchè presuntuose, nullità quali nuove leve dell'indie rock internazionale. L'indie rock è morto. Perchè l'hai voluto, dio? Ma non è morto col secondo disco dei Weezer, con Lou Barlow che lascia i Dinosaur Jr, con la Sonic Youth Records o con i Superchunk prodotti da Jim O'Rourke, con Juliana Hatfield alle prese con l'anoressia o Evan Dando alle prese con se stesso. L'indierock è morto con il primo disco dei Life Without Buildings. Mai nessuno prima e, soprattutto, dopo ha mai raggiunto le epiche vette di quell'unica pubblicazione. Le melodie del basso di Chris Evans, la presenza precisa della batteria di Will Bradley e la chitarra così contemporaneamente indie e emocore (come solo certi canadesi sapranno fare in seguito) di Robert Johnston, suonano come una sintesi perfetta atta a sostenere l'inimitabile cantato singhiozzante di Sue Tompkins. E per singhiozzante non intendo una lagna alla Bright Eyes. Lo stesso dio invocato in principio ne scampi e liberi dal lagnante christian-edge emo-ricano. Lei singhiozza perchè è il suo tratto peculiare, oltre a questo irresistibile accento da periferia inglese, ripete brandelli di parole, ci gioca, le rincorre e percuote, le muta e le ricanta. Tra la filastrocca e l'autismo rende uniche le sue cavalcate, quasi una piccola Mark E. Smith dei Fall che invece di uno sbiascicare da ubriaco riesce a comunicare la sua urgenza squittendo. Urgenza comunicativa un valore oggi piuttosto fuori moda.
Oggi. Oggi. Tutto questo è ieri, è lo scoprire il loro primo sette pollici, è vederli dal vivo. Non è più oggi, è ieri. Niente futuro, soprattutto niente domani come vedremo, come in un classico film già visto. Oggi però entriamo nel paradosso. A cinque anni dallo scioglimento, e dio sa quanto li ho maledetti per averlo fatto, la Gargle Blast, con la Absolutely Kosher in America, ripesca un gran bel live dell'epoca, non il concerto d'addio ma una data qualsiasi di un tour Australiano, il 14 Dicembre 2002 a Sidney, e lo pubblica. Aprendomi il cuore a manate. Il set è pressocchè quello che vedemmo anni e anni fa e i ricordi fioccano. Ma non è una questione di mera memoria. Qui si parla di una serie di composizioni e di una esecuzione impeccabili, sonorità che la maggior parte degli strimpellatori mondiali si sogna la notte. Come quando Microphones si ricorda chi è, come quando scoppiano i palloncini colorati sul palco dei Flaming Lips durante She Don't Use Jelly: ma non solo, sono le stelline che ti compaiono mentre svieni, le campane che senti quando scatta qualcosa verso qualcuno, lo schiaffo che ti pigli quando ti riprendi. Quando Sue attacca The Leanover il pubblico australiano non rumoreggia, come nei live che vengono pubblicati di solito, per aver riconosciuto il capolavoro o il pezzo preferito dell'artista: sono sicuro, l'intero uditorio ha un sussulto, le stelline e le campane. E se sul debutto l'energia, soprattutto del live ma presente in minor misura anche sui sette pollici, sembrava essere stata come edulcorata o, perlomeno, trattenuta, qui scoppia al massimo delle sue possibilità. Ribadisco, qui siamo ai più alti gradi di perfezione che un gruppo indie possa raggiungere. Sue non sta praticamente mai zitta, parlando anche tra un pezzo e l'altro, un flusso ininterrotto di sentimenti che la registrazione consegna intatti all'uditorio casalingo. A costo di sembrare idiota io questo disco lo regalerei a tutte le persone che conosco, per permettere loro di comprendere cosa intendo quando dico "bella esperienza".
Come tutte le cose, ogni bella esperienza ha da finire. Il pubblico non ne vuol sapere ed esige i bis di ordinanza. E la risposta di Sue lascia aperta la porta sulla chiusura di Is Is & The IRS: "See you tomorrow". E, invece del domani, ci sono solo i bis. I was lying before dice prima di chiudere definitivamente con New Town. Certe cose, il futuro ad esempio, non si possono pretendere. La morte è per sempre, come i diamanti. Il passaggio finale, come lo fu per Marylin Monroe, è quello che iscrive il tuo nome nella leggenda, così come è l'ultimo giorno. Non paghi gli errori della vecchiaia come tante dive incartapecorite e rovinatesi con le loro stesse mani. Il cristallizzarsi del diamante, puro e incontaminato, è quello che abbiamo in mano, una nuova fotografia di un qualcosa ormai perso. Bravi, eccelsi, ovunque siano ora. Se siete furbi ve li appuntate e non vi lasciate scappare neanche questo live.