Kliffs – After The Flattery (Backseat, 2023)

Non c’è che dire, il 2023 sembra essere un anno prodigo per l’inconto terreno che unisce le fonti di istintiva musica folk e delicatezze pop. I Kliffs, coppia mezzo canadese e mezzo elvetica suggerisce di fare musica di Montreal con base a Berlino. Vorrei sapere che ne pensi Kevin Barnes di questa suggestione ma forse sarebbe deviare dal discorso. Innanzitutto, chiedo venia, della coppia mi sono perso primo ep e primo album, ma quando ho sentito le prime note di questo lavoro… beh, non ho proprio potuto resistere. Arie cristalline, voci luminose, un violoncello, un piano, controcanti. Il primo pezzo, I’m your man, è da strapparsi il cuore:

Gave my best, you’ve seen my worst
you failed me once, I failed you first
had it all, need it less
here I stand
lost the map, not the truth
I’m your man

Morbidi, levigati, caldi ed intensi…veri. La voce di Mark Bérubé sembra talvolta quasi plastica e forzata, ma è soltanto il passaggio per entrare nelle nostre vene, poi saremmo assoggettati, ebbri e sorridenti. Nenie, stacchetti, coretti, amabili, Pensate ad un condensato di ogni coppia country folk, dalle più oscure alle più patinate (per dirne un paio Handsome Family, She & Him, The Lowest Pair), comprimetele, infilatele sotto una boccia di vetro, date loro colori squillanti e girate le rotelle. Il tutto è talmente bello, giusto, levigato, da sembrare bizzarro e straniante. Ma poi, quando i ritmi si aprono al sole del tramonto, come in Undertow, si capisce di quanto veri siano i Kliffs: una coppia che fa le cose talmente curate da sembrare troppo, ma che quanto si rilassa tira fuori pezzi da far accapponare la pelle, ricamate con un gusto ed un groove che si slancia fra la classicità ed il mondo moderno. Il disco è ondivago e ci svela diversi lati di un cantore che ha ascoltato i classici (a tratti ci sento un sentore di Johnny Cash e June Carter che non riesco a giustificare ma è così, quasi fossero i loro nipotini monelli) ma anche mondi più immaginifici, come l’Hollywood dei ’50, Judy Garland, insieme a qualcosa di grunge a tratti nella voce. Com’è come non è quello che ottengono è una sorta di mondo country candito: dolce, gustoso e potenziamente stucchevole. Non è un disco facile questo, ma è praticamente impossibile resistergli: io non ci sono riuscito, che gli si vuol dire se riescono a proporti un brano che sembra uscito da una scenetta romantica al Tiki Bar come Dear Jane? Kristina Koropecki svisa che è una bellezza, ondeggiando con la sua seconda voce, lui si a tratti si fa profondo come se soffi il vento ma poi ti trascina nella prossima hula, finche i canti si trasformano in legittime urla ubriache. A tratti poi, sfornano brani semplicemente perfetti come Four Hands, poi siparietti coma Alibi, per chiudere (in bellezza, come se no?) con una Helmets da applausi.
Scoperta vera e propria, non vi negate questa scoperta, a breve uscirà il sole, vi verrà utilissima!