È bello ogni tanto ritrovare certezze che non siano le solite, inutile reunion di gruppi zombie, più o meno in forma. E parlando di condizione fisica, mi sa che Justin Broadrick non lo trovavamo a questi livelli dai tempi del primo Jesu (i Greymachine non ci avevano impressionato più di tanto).
Nascosto dietro al nuovo pseudonimo JK Flesh, il nostro torna a frequentare le atmosfere plumbee che furono dei Godflesh migliori, adattando i suoni e la strumentazione ai tempi correnti: quei giorni sono lontani, ma il confronto è inevitabile. Ascoltando Walk Away o Underfoot non può non tornare alla mente un album come Love And Hate In Dub o le decine di remix che il nostro ha dedicato alla sua creatura. In Posthuman sentiamo meno chitarre (ma quando ci sono lasciano il segno), la voce è un suono quasi irriconoscibile (si senta l’iniziale Knuckledragger) e le macchine la fanno da padrone, inevitabile con un titolo del genere. Ma il fattore umano è comunque presente, ed è quello il legame con il passato che ci permette di interpretare correttamente questo album. L’allontanarsi dal rock, recuperando cadenze breakbeat e facendole evolvere verso il dub-step non va letto come un cedimento alla moda del momento, è invece la ripresa di un discorso che il nostro, con alcuni suoi sodali (penso in particolare a Mick Harris e Kevin Martin), aveva contribuito a iniziare e di cui ora coglie legittimamente i frutti. Ne esce un disco certo non innovativo ma sicuramente al passo coi tempi e dotato di una propria, precisa personalità, di uno spirito scuro che non saperi definire in altro modo che “industriale”. Bentornato, Mr Broadrick.
JK Flesh – Posthuman (3by3, 2012)
