Una coppia di persone, tramite l’amore, forma un nucleo, una famiglia. Spesso in campo artistico le relazioni amorose si mischiano a collaborazioni e progetti anche di lunga durata. In questo caso abbiamo invece due dischi separati, di marito (JAB) e moglie (Chistina Vantzou), ad uscire nel medesimo periodo. Quanto questo lavoro si saranno influenzati l’un l’altro nelle esperienze della coppia? Le aree di riferimento sono molto lontane. South Dakota e Grecia, ma a caratterizzarli entrambi c’è una leggerezza di tocco che risalta, quasi come se questi suoni, desunti dai territori di riferimento, fossero stati carpiti segretamente ed in maniera intima, segreta.
JAB – Out There in the Middlesbrough of Nowhere (Poole, 2022)
Il titolo di John Also Bennett è significativo, Out There in the Middlesbrough of nowhere, Trasformazionesonora di un viaggioattraversoipaesaggistratificati e complessi del South Dakota, “…remnants of an ancient seafloor mixed with the ash of a volcanic eruption, eroded over millennia and now resembling the tangled folds of earth’s brain…” si offre a noi come una musica aperta ed in attesa, prodotta perlopiu con una lap steel del 1940, un sintetizzatore e field recordings raccolti qua e là.
Immagino il South Dakota come una terra di contrasti e di ferite, dove le culture native sono state soppiantate, lasciando come monito le facce di quattro presidenti sul Monte Rushmore. Nowhere, nulla, è il primo passo, il calarsi in un ambiente, ascoltandolo più che descrivendolo, assorbendone ritmo, respiro ed intercalare, in attesa.
Poi il sintetizzatore sembra gonfiarsi, quasi ad eruttare le presenze che popolano la Spectral Valley, in un passaggio che fa della sua immobilità e ciclicità la sua forza, come fossimo alle prese con un rito di accoglienza, in cui lasciamo alle entità il tempo di avvicinarsi ed unirsi a noi. Fiotti di suono basso e cristallino ci ricoprono.
Si avanza, senza incontrare anima viva in una terra secca e dannata. Badlands, come uno dei dischi più belli di quest’ultimo millennio (opera di Alex Zhang Hurtai aka Dirty Beaches), sonorizza i passi sul selciato, l’abbassarsi del sole, i minimi cambiamenti che si intercalano in un paesaggio che cambia al ritmo del nostro muoversi, la fauna che in lontananza ci risponde.
Stacco, Grecia, registrazione ad Embrosneros, la luce qui è differente, predominano bianco e blu ma la verve rimane comunque quella di foglie che, lentamente, si staccano da un albero e vengono trasportare da un brezza leggera.
Christina Vantzou . N.5 (Kranky, 2022)
Rimaniamo in Grecia per n.5, opera come detto di Christina Vantzou concepita sull’isola di Syros dove ha trovato il Focus che ha poi rielaborato in un secondo momento, riducendolo seduta in un patio delle Cicladi con cuffie e Laptop. Ne escono dei bozzetti romantici, aerei e freschi, dominati dalla natura salmastra e da suoni cristallini. Una leggerezza lirica, come se le statue di un tempio prendessero vita non viste e danzassero motivi antichi.
Esangui a tratti, come i vocalizzi di Kimona I e di Tongue Shaped Rock ma anche fertili e prodighe di elementi, dove luci ed oscurità si mischiano senza soluzione di continuità, memorie forse dell’andirivieni fra i diversi mondi divini e terreni. Giochi e voli di archi e rimbrotti su Memory of Future Melody in cui la danza perde quota ed acquista massa.
Un gioco perenne tra leggerezza ed intensità, fra ritmo ed immobilismo.
Un gioco che Christina Vantzou dirige con maestria cerimoniosa e mano fatata.
Due dischi preziosi, che ognuno a loro modo raccontano di incontri e di esperienze, di vita che viaggia e si rafforza tramite il passaggio ad altri luoghi. Noi, di riflesso, chiudiamo gli occhi e viaggiamo, nutrendoci.