Che Pavel Eremeev sia un matto tamarro o un geniale alchimista è difficile da stabilire e certo non basteranno le poche righe di questa recensione per venire a capo del dilemma; non è escluso tra l’altro che i due aspetti possano felicemente convivere. Il nostro, nei panni di Holy Palms, parte da Mosca e si avventura ai margini dell’impero russo (con molti e profondo sconfinamenti) a raccogliere suoni e umori dei popoli alle frontiere per poi rielaborarli nel suo personalissimo pastiche sonoro fatto di chitarra elettrica, effetti elettronici e drum machine. Devo ammettere che al primo ascolto questo nastro mi era sembrato qualcosa di terribile: lunghi abbozzi strumentali dove la chitarra faceva a pugni con le basi sintetiche sguazzando in un minestrone di suoni etno ed elettronica a buon mercato. Non che con gli ascolti questa sensazione si perda del tutto, è solo che se ne coglie il senso, perché a tenere insieme le parti proprio nei momenti dove tutto pare andare in vacca è la figura sciamanica di Eremeev, capace di governare il caos con la sua chitarra o di imbrigliarlo in complicate figure ritmiche. Se parlando di Ak’chamel, anch’egli uscito di recente per Arte Tetra, lamentavo un’eccessiva ossequiosità verso i modelli qui il problema assolutamente non si pone: Holy Palms utilizza le fonti in modo spregiudicato affogando le influenze in ritmi folli, rumorini, elettronica da videogiochi, chitarrismo hendrixiano; lo fa direi senza fermarsi troppo a pensare ma guidato dall’istinto, buttando sulla scena gli elementi che gli servono e poi cavalca l’onda. La sua è una musica che in momenti diversi ma senza soluzione di continuità parla alla mente e al corpo – alla prima nelle sequenze più sognanti e al secondo in quelle più ritmate e fisiche – evocando il compiersi di una cerimonia. Inutile estrapolare e citare tutti i momenti riusciti che si incontrano lungo gli oltre 60 minuti del nastro, più sensato alfine di dare un’idea di quel che è Jungle Judge è prendere come esempio per tutti gli altri brani (che hanno comunque le più disparate coloriture) Stoned In The Jungle Stolen By The Liana (niente male il titolo, eh?) dove inquiete stasi elettriche separano melodie centroasiatiche intarsiate con beat insistiti da ritmi elettronici in ambiente sulfureo e ancora da chitarre serrate su ritmi altrettanto tesi che si trasfigurano improvvisamene in colonne sonore di film western o in suoni riecheggianti mondi che ci sembra di poter afferrare e invece ci sfuggono di continuo. Qui c’è tutto il senso della musica di Holy Palms: non un melting pot ma una realtà fluttuante che trova senso nel rifiuto di fissarsi in una forma stabile. Un regno parallelo governato da un musicista-stregone.