Duocane – rAmen (autoproduzione, 2024)

Basso e batteria, voci urlate rabbia e ritmo. Stefano Capozzo e Giuseppe Sollazzo, entrambi baresi, da diversi anni macinano e tracimano parole e ritmo, tanto che rAmen è addirittura il quarto disco a nome Duocane. Spesso al limitare dello stoner per volume e forma, qualche scheggia hardcore e nebbie come le nuvole sul mare visto dalla costa. Il disco scorre anche se forse la ricerca eccessivamente carica della voce fatica a sposarsi con il marasma di suono, lasciando spesso i brani a metà del guado. Colpisce, quando accade, l’equilibrio, specialmente nell’incrocio con gli archi di D.O.C., vero e proprio volo pindarico parecchio notevole che richiama a certe frange post-rock mischiato all’hardcore in voga in Francia. I testi sono spesso brillanti, come una Rosiko! Che ci butta direttamente su una sognante plancia da gioco, tra voci aeree, free jazz ed i rombi ritmici dei nostri. Taky Ongoy è una scheggia che non saprei descrivere, fra campionamenti e sacro, ci limiteremo a descriverla come perfetta. Con l’entrata della voce di Mariabruna Andriola in Costantino si svelano altri lidi per i Duocane, che riescono ad ampliare la loro tavolozza di storia con musiche leggiadre. Poi qualche ringhio, bava e cani mordaci. Giulio, vergognati! non le manda a dire e riesce a montare un frankenstein sonoro grazie fonti lontane a sposarsi perfettamente sotto le urla del nostro, per finire con una registrazione country che sembra scesa direttamente dal paradiso e via così. Una Acinino interminabile non riesce a mantenere la medesima tensione, così come la finale La luna giù per il camino. Al termine degli ascolti credo che rAmen sia un disco con degli ottimi spunti, al quale manca una sgrassata per entusiasmo ed i Duocane un progetto da approfondire, partendo da questo per saltabeccare nel passato (citiamo solo Neqroots ed il suo video, altissimo momento di poesia), sperando in un prossimo capitolo più bruciante e quadrato, idee e capacità ce ne sono fin troppe.