SODAPOP: Ciao Davide,
Grazie mille per aver accettato di scambiare qualche chiacchiera con me!
Innanzitutto devo ammettere di conoscerti appena musicalmente, sono stato parecchio fortunato a ricevere il tuo disco grazie ad uno scambio con Matteo Casari e Marco Rabingum. Da allora è stata, beh, una vera e propria folgorazione.
Mi sembri un musicista completamente avulso dall’oggi, ti andrebbe di dirmi un po’ di te per darmi un quadro di riferimento?
Età, condizioni attuali, ascolti, esperienze (so dei Japanese Gum che dovrò recuperare perché a me sconosciuti), progetti se ne hai (reali o campati in aria)…
DAVIDE CEDOLIN: Ciao Vasco grazie mille a te per l’invito.
Approfitto dell’occasione per ringraziare Matteo che da oltre vent’anni costruisce scenari, spazi, cultura e musica a Genova grazie all’attività di Disorderdrama insieme a varie persone tra cui Marco, produce dischi con Marsiglia Records e supporta l’attività indipendente locale ed internazionale con grande passione.
Apprezzo molto chi ascolta musica in modo attivo, cosa che porta a notare dettagli e stratificazioni che aiutano a capire meglio il lavoro e buona vita che si cela dietro ad un disco. Farò un discorso probabilmente impopolare e romantico, ma l’avulsione dai circuiti contemporanei è quello che mi ha permesso gradualmente di liberarmi in senso espressivo. Ho ascoltato musica con una visione parziale, che credevo fosse invece la più completa per tanti anni. Credevo che per essere musicista dovessi trovare il mio posto nel presente, sia a livello di suoni che di “scena”. Gradualmente invece, nell’inverno dei miei vent’anni, ho iniziato a percepire una sorta di dissonanza verso quel tipo di visione. Mi sono sentito perso parecchie volte dentro una realtà aliena al mio essere più intimo. Ho avuto delusioni dal punto di vista dei rapporti umani nell’ambito musicale che sono state le delusioni maggiormente demoralizzanti, perché provenienti proprio da quel mondo che io volevo vedere puro, privo di macchie. Demistificando la banalità che mi portava a pensare che il mondo della musica fosse fatto di persone ‘migliori’ rispetto al mondo del quotidiano, ho accettato che anche in questa dimensione esistono il capitalismo, il paraculismo e l’opportunismo ed essendo cose che mi fanno sbroccare a prescindere dal contesto, ho deciso di fare a meno di ricercare un senso di appartenenza, ripartendo da ciò che sentivo dentro, in modo naturale. E così mi sono trovato ad andare in profondità a livello espressivo che è esattamente ciò che mi ha fatto scegliere di vivere nella natura e di essere vegetariano. Ho iniziato a prendermi responsabilità, come smettere l’uso di alcolici che con la mia biologia e psiche hanno poco a che fare e che anzi innescavano meccanismi che mi facevano perdere coraggio nell’agire. Musicalmente in senso stretto la svolta è stata ospitare in concerto in uno spazio dove organizzavo live, due ragazzoni americani poco più che ventenni che erano già assolutamente incredibili a livello di talento, Daniel Bachman e Ryley Walker. Fu un concerto per pochissimi intimi, ma fu il migliore che organizzai all’epoca. Era il 2013, e nel mio bagaglio di ascolti non vi era moltissimo spazio per chitarristi acustici. Mi ero avvicinato al finger-picking se così possiamo definirlo in modo trasversale, via Pelt grazie ai dischi solisti di Jack Rose, che scomparve nel 2009. Fui sopraffatto nel sentire suonare Daniel dal vivo, aveva la calma, la dolcezza e le buone maniere tipiche del sud degli States ma al contempo era come posseduto dallo spirito di Jack Rose, e dalle sue chitarre usciva non solo suono, ma un mondo dimenticato, una tempesta di memorie lontane, come visioni ancestrali. Parlando con lui negli anni mi ha confidato in più di un’occasione di sentirsi lui stesso strumento di qualcos’altro, un tramite tra il suono in potenza e la chitarra. La sua encomiabile tecnica fa il resto, ma è la sua grammatica di chitarrista la cosa più pazzesca: ha reinterpretato non un genere o dei modelli, ha saputo costruire negli anni una struttura di codici ed accordature in modo autonomo e autodidatta, e si è lasciato trasportare dalla potenza dello strumento. Anche se non solo per questo, mi sentirò debitore verso Daniel per il resto della mia vita, per come mi ha permesso di entrare nella sua dimensione, dove non esistono aspettative né intrusioni intellettuali.
Al momento sto lavorando al prossimo disco con band (Tommaso Rolando, Simone Mattiolo e Paolo Tortora) che sarà composto sia da brani strumentali sia da “canzoni”.
In parallelo sto sviluppando idee soliste, che mi porteranno inequivocabilmente ad un certo punto non ben definito a fare uscire qualcosa di estemporaneo e in solitaria durante l’anno. Insieme al video maker Michele De Lucis stiamo invece progettando un documentario sull’area del Beigua, che nonostante sia almeno in parte Parco Regionale e sia una risorsa indispensabile in quanto micro clima, rischia di essere deturpato da scavi e sondaggi nelle montagne, alla ricerca del titanio. L’attuale Governatore della Liguria Giovanni Toti ha smontato una struttura burocratica che mirava alla salvaguardia del territorio naturale per permettere queste operazioni. Ci sono comuni appena fuori dai limiti del parco che hanno chiesto di poter essere inclusi nell’area del parco, proprio per non doversi trovare infangati in questo assurdo progetto economico.
Info sintetiche.
Ho compiuto quarant’anni lo scorso 26 Aprile — Frequento il biennio specialistico in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti.
Ascolti recenti (non necessariamente nuove scoperte, non necessariamente nuove uscite):
“West Kensington” Mary Lattimore & Paul Sukeena
“Viscera Eternae” Shane Parish
“Shady Grove” Morgan Sexton
“Wake the Flood” Grateful Dead
“Urban Driftwood” Yasmin Williams
“In/Out/In” Sonic Youth
“Die Hand der Riesin” Son of Buzzi
“El Mirador” Calexico
“Beautiful Eyes Of Virginia / Jake Bottle Blues” Lemuel Turner
“Way Down Yonder Blues / Tramp Waltz” Lemuel Turner
“The Liquified Throne of Semplicity” Širom
“Sessione Pre Angiou” Andy Moor & Tommaso Rolando
“High & Lonesome” The Howard Hughes Suite
“Sycamore City & Other True Stories” Daniel Bachman
“A bordo del Conte Biancamano” Roberto Menabò
“Mercury Part I & II” Lucy Adlington & John Pope
“Cassiope: Protection Songs for Guitar” M.H.H.
“Zonal Light” Golden Brown
“Understand” William Tyler & Luke Schneider
SODAPOP: La tua profondità espressiva è proprio quello che mi ha colpito ascoltandoti. Percepisco la tua musica come necessaria, come metodo frugale e diretto per comunicare e commentare il tuo mondo. Mi hai detto che da poco tu e la tua compagna avete messo su famiglia. Trovo che per gli infanti l’accesso al mondo sia permeato da quello stupore e da quell’interesse che nel mondo adulto mantiene unicamente chi ha una reale passione per mondi che, volenti o nolenti, non si esauriranno mai, come la musica ad esempio. Hai già fatto i tuoi tentativi di educazione sonora primaria? Come vivete la musica in famiglia?
DAVIDE CEDOLIN: È una lettura che condivido. Suonare mi permette il lusso di uscire dagli schemi della trasmissione verbale canonica, e ampliare il raggio della comunicazione espressiva. Più tempo passo a suonare e meno parole mi servono per raccontare qualcosa. Mio figlio ha da poco raggiunto gli otto mesi (nato 08/09/2021) e nonostante sia piccino già risponde agli stimoli sonori. Suono spesso di fronte a lui, e ha già un paio di temi preferiti che sono in lavorazione per il nuovo disco.. la sua gioia però, quando gli strimpello “On the Banks of the Old Kishwaukee” di Ryley Walker o “How lucky” di John Prine (che inizia a riconoscere anche quando la ascoltiamo con lo stereo).. una cosa molto interessante è notare come in base all’età si ampli lo spettro delle frequenze.. e conseguentemente passare dallo spavento di una nota bassa alle risa senza controllo nel giro di pochissimo tempo. E’ una gioia vederlo interagire. Adesso ha capito che sto per suonare perchè indosso i finger picks, e quindi inizia ad eccitarsi anticipatamente. E’ spettacolare. Cerco costantemente di re-imparare da lui il senso della meraviglia. Da pochi giorni ha ricevuto il primo tamburello e sta spaziando abbastanza. In generale poi cerco di non essere troppo invasivo ne verso lui ne verso la mia compagna, anche perchè spesso per me suonare significa improvvisare o andare in fissa con un pattern di arpeggio che posso prolungare anche per buone mezzore, quindi cerco di prendermi miei spazi al di fuori dell’abitazione, come all’aperto in bella stagione o in un capanno nei mesi freddi.
SODAPOP: Il tuo ultimo disco è pubblicato da Ramble Records, un’etichetta australiana con base a Melbourne con un corposo catalogo. Dalla Liguria allo stato di Victoria passano all’incirca 16300 KM. Cosa significa per un musicista riuscire a trasmettere un suo sentire, come può essere una produzione discografica, al lato opposto di un pianeta, al netto della comunicazione, della globalizzazione e del mondo odierno? Voglio dire, quando ti sei approcciato alla musica avresti mai pensato di realizzare un’impresa come questa? Che tipo di realizzazione si può porre un musicista negli anni 2020? Ricordo che con la mia vecchia etichetta, vendere un nastro alle Hawaii oppure essere in vendita sugli scaffali di un negozio a Tokyo mi dava (ed ancora mi da) i brividi. Pensi mai alla potenza della musica in questo senso?
DAVIDE CEDOLIN: La possibilità di avere un campo allargato facilitato è probabilmente l’aspetto più interessante di fare musica in questa contemporaneità. Inviare un’email a 5, 500 o 5000 km di distanza è esattamente la stessa cosa, non vi sono vincoli di costi o di spedizione. Questo permette di aprire dialoghi con persone vicine per affinità elettive anche se lontane geograficamente. Penso a scrittrici e scrittori che trattano i concetti di distanza, geografie immaginarie e di perdizione in senso filosofico oltre che fisico, come Barry Lopez, Kathrin Passig, Rebecca Solnit e soprattutto Kate Harris, di cui ho citato una sua affermazione nell’artwork di Contemplations and Other Instrumentals from the Valley che credo esprima esattamente il mio sentimento: “Every heartbeat is a history of decisions, of certain roads taken and others forsaken until you end up exactly where you are.”
Mi emoziono ogni volta che scorgo un interesse gratuito verso il mio lavoro, e spesso questo coincide con una certa sintonizzazione poetica ed interiore tra chi ascolta e me. E’ meraviglioso sapere che magari dall’altra parte del mondo c’è qualcuno che può trovare nella mia musica quello che sente dentro. E’ lo stesso per me, mi scalda il cuore sapere che ci sono artisti sparsi per la Terra che esprimono sensazioni ed emozioni che sento anche mie. Le label con cui lavoro sono innanzitutto fan del mio lavoro e viceversa, diversamente non potrebbe essere possibile collaborare.
I brividi vengono anche a me a pensare alla potenza della musica in questo senso, eccome.
La Liguria, in particolare l’entroterra così come il Friuli pre-Carnico sono i miei luoghi. Sono cresciuto a Varazze dove ho potuto diventare intimo con il territorio circostante, boschi, laghetti. In estate ho sin da piccolo frequentato invece la borgata dove è nato mio padre, vicino al “paese fantasma” di Pozzis, di cui esistono tante storie abbastanza particolari. Mi dispiace non aver potuto conoscere meglio la zona originaria di mia madre, in quanto quando ero bambino già avevano venduto la proprietà. Per me in definitiva è tutto un grande viaggio, sia materiale che spirituale.
SODAPOP: Ammetto di non conoscere Kate Harris, sono andato a cercarla proprio dopo aver letto la sua citazione nel tuo disco e la sua storia è significativo. Quel che dice è splendido ma anche complicato perché, tornando all’antico adagio per cui l’importante non è la fine ma il percorso, l’artista sceglie di condividere il proprio percorso e la propria scoperta pressoché continua, fermandola di tanto in tanto su supporti sonori oppure con delle esibizioni. Ma quello che è solo una tappa per te può essere un punto di arrivo per l’ascoltatore, che avrà comunque e sempre una conoscenza parziale e personale di quello che hai fatto. Oppure, viceversa, la tua opera finale e finita sarà unicamente un diversivo od un sottofondo per l’ascoltatore. Questi diversi piani che si intersecano danno vita, quando si incrociano nella giusta dimensione, ad un’intesa ed un affezione anche molto importante. Quel che mi hai raccontato di Daniel Bachmann lo riconduco proprio a questo. Ti chiedo quindi altri due nomi per uno snodo musicale importante da affiancargli e perché. Poi, questione ipotetica, dovessi essere scelto da qualcuno, fra 30/40 anni, con quali altri due musicisti ti garberebbe condividere la piazzuola o la seratona live dell’anno?
DAVIDE CEDOLIN: Kate Harris è estrema, radicale: nel suo porsi verso il mondo racchiude dei dualismi fisiologici. Forse è il suo “utopismo consapevole” che sento risuonare, quella felicità sincera con cui si tuffa nell’ignoto.
Daniel è un caso particolare, perché non ho avuto la possibilità di andare un po’ oltre nella conoscenza personale con altri artisti che ammiro a certe profondità quindi posso rispondere con altri due nomi ma non comparativamente. I Širom che sono un trio acustico sloveno che avuto il piacere e l’onore di ospitare in concerto con cui purtroppo non c’è stato il tempo materiale per entrare più a fondo umanamente anche se le vibrazioni che abbiamo avuto con loro sono state ottime. Per come li ho conosciuti musicalmente sono stati spiazzanti. A partire dal fatto che si auto-costruiscono buona parte degli strumenti che usano, non ho un lessico che mi permetta di descrivere il loro suono in modo appropriato. Ti tirano dentro ad un mondo fuori dal tempo e dallo spazio, un viaggio lisergico nella memoria di mondi paralleli. Grazie a loro ho scoperto l’amore verso l’improvvisazione in una modalità differente da come la vivevo. A ritroso nel tempo, anche se non ho mai avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, penso che i Sonic Youth siano stati i primi a farmi vibrare in un certo modo. Le accordature aperte ed inventate, i metodi anti accademici, il gusto per le melodie e per la loro deturpazione. Li ho scoperti verso i sedici anni in in epoca in cui ascoltavo prevalentemente punk e new wave. Di lì in avanti, se così si può dire, è cambiato il mio percorso musicale intellettualmente prima ancora che in senso pratico. Ho ancora il magone a ripensare al tour insieme a Jim O’Rourke..erano in cinque sul palco, spesso doppio basso, il che creava se possibile un muro di suono ancora più devastante di quando li vidi come quartetto qualche anno prima.. un live alieno, per quanto ci si possa provare, credo che la loro caratura artistica e fuori dalle linee sia inarrivabile.
Essendo ipotetica e così avanti nel tempo mi piacerebbe suonare insieme ai compagni di avventure che mi stanno accompagnando negli anni in diversi progetti, Paolo Tortora, Tommaso Rolando e Simone Mattiolo, con idealmente ospitate di Daniel Bachman, Lee Ranaldo e visto che di ipotesi fantasiose si parla, li spirito di Jerry Garcia alla lap steel e Morgan Sexton al banjo.