AAVV – un sentito omaggio a Rodolfo Santandrea (Snowdonia/MEI, 2023)

Di Rodolfo Santandrea conosco poco o nulla, se non una mirabile esibizione (o meglio, un’apparizione) sui palchi del Teatro Ariston durante la rassegna canora nel 1984. Presentò La Fenice, splendido brano scritto insieme a Riccardo Cocciante che segnò un prima ed un dopo nel concorso. Facile prendere quanto di buono e di intenso dalla kermesse con il setaccio del tempo, un altro grandissimo esempio fu ad esempio Alessio Bonomo con La Croce nel 2000 (toccherà aspettare qualcosa, magari per il suo quarto di seguito?). Ma Rodolfo fu molto altro, con quattro album ed un 12″ fra il 1983 ed il 1995 ricolmi di pepite che vengono finalmente valorizzate con un omaggio snowdoniano, affiancato in questo caso dal MEI, conterraneo proprio del faentino Santandrea. Omaggio che, si spera, smuova l’interesse verso un grande misconosciuto della musica italiana.
Sono 11 i brani prescelti, estratti dall’album omonimo dal 1984, da Aiutatemi, amo i delfini del 1988 e da Anni del 1995. Alberto Scotti, nel libretto incluso (ed ornato dagli splendidi disegni di Claudio Milano, aka NichelOdeaon, anche interprete della finale Capriccio fenice insieme a Filippo Manini), scrive “Poi l’addio all’industria discografica, grande e piccola, la musica in strada, l’insegnamento del violino ai bambini, la libertà…”. Una fase quindi, quella di Rodolfo Santandrea, che ci ha lasciato brani ricchi, bizzarri e forieri di altrettanto visionarie versioni da parte di artisti poliedrici. Iniziamo da Claudio Lolli che riesce a rimanere in equilibrio sul dramma de La fenice con grazia e polverosa sofferenza. I Manuel Pistacchio si confermano uomini da palude tropicale, riuscendo a cavare Le aquile da una melma calda e sulfurea. Stefano Barotti saltimbecca sulle Guance Bianche come un airone sui maneggi toscani; strugge negli stacchi strumentali e colpisce con i suoi guizzi vocali. Jet Set Roger mette il vestito blasé a Niente, che ne esce elegante e stradaiola al tempo stesso. Di Davide Matrisciano so pochissimo ma andrò al più presto ad informarmi: credo fermamente sia pazzo, di una pazzia bellissima, quella che vorresti colmare con abbracci per la strada, magari proprio ad Amsterdam dove dipinge vere e proprie magie pindariche. Le Forbici di Manitù curano Sui marmi di Carrara, brano nel quale Noi siamo la carie della civiltà appare come nota finale dell’umanità tutta. Matteo Castellano e Mapuche muoiono con Marta, che non è morta ma tornerà. Io non lo so, di sicuro spennacchiano e cantano come dopo tre bottiglie di quello della casa, quindi se Marta è morta non chiudere la porta, poi si vedrà. Del sesso, della seduzione, della frutta e della carne ovviamente se ne occupano i Maisie, insieme a Riccardo Lolli ed al sax di Edson Zuccolin, uno che ogni volta che lo ascoltiamo nascono dei bambini. Qualcuno si chieda perchè e lo esoneri dalle tasse per questo. Arance ed ananas, tutta la vita. Temevo il brano Un Delfino, lo temevo perchè conoscevo Fred Neil ed ora conosco Santandrea e conosco anche Paolo Zangara che stava nei Lo.Mo e negli Ophiuco. Ne esce una zuppa, dalla quale ci serviremo tutti perchè è buona educazione, però era il suo delfino, cetaceo maledetto. Gli Ossi trattano Alice come avrebbe potuto farlo il già rocker di Zocca, tra lambrusco ed ancheggiamenti malandrini e rock. Chiudono, come già detto, NichelOdeon e Filippo Manini. Fiamme polifoniche ed adamantine, a rinascere ora e per sempre, purgando e mondando il mondo.
Un disco che apre porte, mondi, scantinati bui. Un disco forse necessario, sicuramente commovente.