Taras Bul’ba – Amur (Wallace/Lizard, 2012)

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Dopo la buona impressione che avevano fatto su queste pagine con Secrets Chimiques nel 2008, torna il trio milanese dei Taras Bul’ba, tra voci remote e danze tribali. Coup de Grace riesce a fare un po’ da trait d’union con il precedente lavoro, pur denotando un un suono che stavolta appare un po’ scollato. Con Ogro, la matrice sperimentale della band si fa strada, si ha l’impressione che la band si muova con meno convinzione tra sperimentazione hardcore, noise, prog e jazz. Dobbiamo aspettare Short Drop per avere un pezzo, pur arzigogolato nelle rimiche, ma davvero a fuoco nella resa che mette in luce ciò che la band ha saputo esprimere in quest’ultimo lustro.
Anche la traccia Amur possiede un fraseggio straniante ed è proprio nel cuore e nella coda del disco che emergono le cose migliori, prendo a spunto la conclusiva IOR. A volte, ed è il punto debole di Amur, il gruppo tende a girare a vuoto, come in una continua jam session, ispida e ingarbugliata, alla ricerca di un’ispirazione che ha trovato miglior fortuna, a mio avviso, nel precedente album. Gli alti e bassi nella traccia Psicofonia, con le inquietanti voci campionate/remote, ormai marchio di fabbrica della band, sono un po’ la summa di quanto detto sopra, sia nei pregi che nei difetti. Nel pezzo My Name Is Igor mi sono addirittura venuti in mente i Supergonzo, quasi il gruppo milanese fosse la versione più dilatata seriosa e intellettuale rispetto all’istintività/genialità dei veronesi, pronti a troncare un pezzo quando stava per avere un bel giro. Per il resto ci pensano le chitarre taglienti e il basso grezzo a delimitare un territorio dai chiari richiami noise – post hc, che smembrano e mandano tutto in frantumi. Non ci resta che raccogliere i cocci e pescare ciò che di buono (compresa la mano di Fabio Magistrali) il loro suono sa ancora offrire.