Barachetti/Ruggeri – White Out (Ribéss/DreaminGorilla, 2016)

Luca Barachetti (già voce nei post-blues Bancale) ed Enrico Ruggeri (ex Hogwash e da tempo impegnato come solista presso tutt’altri lidi) arrivano al disco dopo che li sodalizio è stato testato in diverse esibizioni dal vivo, pratica empirica sempre più in disuso ma oltremodo utile, a maggior ragione in un caso dove la riuscita dell’alchimia non era affatto scontata: ascoltando il precedente lavoro di Ruggeri mi sembrava poco adatto ad accogliere la voce umana, se non forse sporadicamente. Il punto è tuttavia proprio questo: la musica qui è intagliata intorno alla voce, le fa spazio e se lo prende, ora adeguandosi fino a sparire, ora dettando le cadenze costringendola a loop ed effetti tanto che non saprei dire se in fase di composizione sia venuto prima il suono o la parola; non è comunque cosa su cui sia importante dilungarsi mentre è tempo di venire al disco. White Out è un concept sul volontario crepuscolo dell’Occidente che si focalizza sull’individuo, evitando sermoni e trattazioni sui massimi sistemi; utilizza un linguaggio ricercato che inizialmente sembra astrarre il quotidiano ma che via via si fa sempre più concreto, tangibile, corporeo (proprio le immagini del corpo ricorrono ossessivamente dalla metà in poi), come se la visione si facesse sempre più nitida fino al capolinea di Fiume Verticale, un’epifania apocalittica a base di voce, organo synth, chitarra e percussioni. Prima di arrivarci il percorso è però lungo: sono dodici canzoni in un’ora, tante parole e musica spesso scontrosa che non ammettono un ascolto distratto; White Out non è una passeggiata, ma intraprenderla può valere la pena. In un ambiente particolare (non è un album di canzoni ma nemmeno uno spoken word musicato) Ruggeri ha l’occasione di sfoggiare un campionario ampio che mette in fila, oltre agli attesi soundscape, aperture post-rock, percussività industriali e sintetiche, brandelli di elettronica spigolosa che a volte si armonizzano, altre contrappuntano parole e testi, segno di un lavoro certosino e di un riuscito affiatamento col compagno di viaggio. Barachetti sfoggia uno stile vocale mutuato da modelli nobili – in primis citerei Giovanni Lindo Ferretti e il Giovanni Succi dei Bachi Da Pietra pre-heavy metal (influenza già in parte sublimata nei Bancale) – ma non di rado dimostra il raggiungimento di una cifra stilistica personale che lo affranca da troppo facili rimandi. È il suo un “quasicantato” indolente che caratterizza subito in apertura una Dolore Bianco dal suono scarno e spettrale e che ritroviamo nel pulsante brano eponimo, in una Cretto Del Vero sporca di suoni sintetici e fulminea, in una Uomo Occipitale dalle atmosfere post-warpiane. Ma anche dove i rimandi ai succitati artisti sono evidenti (Corpo Occidente, Pulsa, Uomo Scritturato) la cosa non disturba, anzi la scelta è felice: fare i conti con certi personaggi, specie quando si frequentano certe latitudini, è cosa doverosa nonché produttiva poiché dona varietà a un’opera che, giocata su un unico registro, avrebbe rischiato un’insopportabile monotonia. D’altra parte, lo ribadisco, non siamo al cospetto di un disco facile: anche se avvezzi a certe sonorità in alcuni punti, specie dopo un po’ dall’inizio, si fatica a tenere viva l’attenzione, ma su un lavoro tanto lungo e complesso è difetto perdonabile e forse aggirabile con un ascolto centellinato, un po’ come si farebbe con la lettura di un libro. Sorprende invece che in un’opera così organica sia possibile estrarre dei brani pienamente godibili in autonomia e mi riferisco alle già citate White Out e Uomo Occipitale e a Pulsa, dotate di un’anomala vena pop. In definitiva è questo un disco che consente all’ascoltatore di battere diversi percorsi e ai musicisti di avere una base sicura per intraprenderne di nuovi in futuro e ciò è certamente un bene.