Twelve Thousand Days – The Boatman On The Downs (Finalmuzik, 2023)

Sulla ritrovata prolificità di Twelve Thousand Days dall’arrivo sotto l’ala protettrice della Final Muzik abbiamo già speso più di una parola, ma questo è un semplice dato; giunti al quarto disco in cinque anni, quello che è necessario rimarcare è come  sia qui che Martyn Bates convoglia la maggior parte delle proprie energie creative e come, in duo con Alan Trench, stia vivendo un momento di grande ispirazione. Ormai questo non è più un side project degli Eyeless In Gaza, ammesso lo sia mai stato, ma un’entità che traccia un percorso personale, aggiungendo ad ogni capitolo nuove storie ad un corpus di canzoni già ricco e che, prima o poi, andrà indagato con la dovuta attenzione.
The Boatman On The Downs è un album più scuro del duo, con una vena di profonda malinconia che attraversa tutti i brani, anche quelli apparentemente più spensierati. Ancora più evidentemente che nei lavori precedenti, la tradizione folk inglese non è solo interpretata, con cover o brani originali “in stile”, ma anche profondamente rivista: un discorso caro a Bates almeno dalle Murder Ballads in compagnia di Mick Harris (Scorn, Lull) e Songs Of Transformations con Max Eastley, che qui trova il suo apice in As The Sun: ne parleremo.
Si parte con la malinconica Comely, voce solitaria che aleggia su un bordone elettronico e racconta di incontri scanditi dal trascorrere delle stagioni, idea, quella della ciclicità, che torna in A Frankish Cascket, una visione romantica, bellissima e cupa. Fra le due è posta la misteriosa The Brides Of May che, secondo la scaletta del CD, dovrebbe chiudere l’album, oltre ad essere l’unico a non avere il testo riportato all’interno: pur nella sua malinconia suggerisce un senso di serenità, sensazione che, dopo la movimentata ed ironica Arthur McBride, un tradizionale ravvivato da percussioni ed elettricità chitarristica, naufraga fra le pieghe del tempo che trascorre, cantato senza consolazione in Tale From A Silver City e Summer Tree. Siamo già nella seconda metà del disco, con la spettrale The Emerald Table (che proprio di spiriti parla), e il dittico, unito da una coda e un inizio elettrici e disturbati, composto dalla vivace Under What Scars e la nostalgica (e in chiusura quasi marziale) The Boatman. Ed eccoci così a As The Sun: si tratta, in realtà, del traditional Early One Morning, ma dell’originale rimane praticamente solo il testo, al quale la voce conferisce un senso di dramma assente in qualsiasi altra versione possiate ascoltare. Se fino ad ora la modernità si era insinuata con drone e chitarre elettriche in un tessuto tradizionale, qui si prende la scena con battiti riverberati, chitarre acustiche dissonanti, synth e flauti addolorati, ma è piegata all’atmosfera di fine ineluttabile che questa nuova versione vuole trasmetterci. Potremmo parlare di finale aperto, che ci proietta verso sviluppi futuri, non fosse che la musica dei Twelve Thousand Days segue una logica lontana dalla banale evoluzione per privilegiare l’ispirazione dei membri che costruisce un universo in continua mutazione in cui tutto torna e si materializza nel presente: uno specchio nel quale osservare la nostra realtà, scoprendo prospettive inedite e aspetti che, solitamente, trascuriamo.