The Mon – Eye (Supernatural Cat, 2023)

L’aria di casa Neurot fa decisamente effetto sugli Ufomammut, stabilitisi lì da ormai cinque album. Lo fa in particolare su Urlo, bassista/cantante del terzetto che col progetto solista The Mon sembra cogliere lo spirito profondo dell’etichetta, dando voce al lato meno appariscente e più originale della psichedelia pesante. Perché se Eye, terzo lavoro della sua ragione sociale, vira decisamente verso il folk, lo fa senza perdere un grammo di densità, ricomponendo liberamente una miriade di influenze e riferimenti. Potremmo parlare di drone folk per l’assenza di qualsivoglia battito e la presenza di una continua tensione elettrica ed elettronica che dilata il suono, ma in realtà è più lo spirito, che non la fredda analisi delle parti, che ci fa dire che questa è musica inquieta e sentita, che, toccando gli stati più profondi della materia, evoca forze ancestrali.
Sun chiarisce subito l’andazzo: suono di basso che scava nel profondo; chitarra, violino (di Sarah Pendleton dei Subrosa e The Otolith) e voce mesmerizzati che si elevano verso le stelle. L’estrema cura per le melodie vocali la ritroviamo in Secret, col contributo Francesca De Franceschi Manzoni, e sarà una constante dell’intero disco: fa testo Steve Von Till (Neurosis) che, col suo tono peculiare, marca a fuoco Confession, atmosfera quanto mai scura e chitarre che si avviluppano in infiniti crescendo. Proprio Harvestman, emanazione psych-folk del musicista americano, potrebbe essere una buona pietra di paragone con questo progetto, che tuttavia si distacca per personalità e per la capacità di rielaborare la materia prima del rock. Saranno suggestioni, ma in This Dark O’Mine e Burning From Afar (entrambe con Dave W. dei White Hills alla chitarra) e nella (a suo modo) metallica Where, ma in realtà un po’ in tutto il lavoro, sembrano agitarsi, trasfigurati in una forma ben lontana da quella d’origine, i fantasmi di grandi gruppi del passato dai Pink Floyd agli Iron Butterfly, finanche ai Beatles poliedrici del White Album. Ma in fondo non c’è nulla di strano, perché questa è musica che, nel suo fluire sinuoso, va a toccare le propaggini più estreme di vari stili e generi. In tutto ciò fa storia a sé, verso la fine, la splendida To The Ones, sorta di preghiera cosmica officiata dalla voce dell’Amenra Colin H. Van Eeckhout, per la quale è impossibile trovare riferimenti validi.
Verrebbe da dire che un album come Eye traghetti il folk, del quale è evidentemente figlio, nel presente, ma è inesatto: questo è un lavoro che ci immerge in un tempo ciclico, dove le dilatazioni elettriche trasfigurano antiche cantilene e l’origine del suono sta, contemporaneamente, alle nostre spalle e davanti a noi.