Stella Burns: a lonesome cowboy through the space

L’inizio del 2024 è caratterizzato da diversi dischi e progetti in qualche modo collegati, almeno per un gusto, un retroterra ed un immaginario. Il primo di esso (gli altri non ve li svelo, ma entro il fine settimana avrete un’altra tessera del puzzle) è il nuovo disco di Stella Burns, personaggio che da anni ormai lega la sua poetica a mondi distantissimi fra loro, siano essi il west o David Bowie, ma anche e soprattutto il legarsi ad un personaggio vivendolo in toto. Oltre a questo fa musica splendida (testimone ne è l’ultimo Long Walks In The Dark) ed è per questo, in fondo, che siamo qui con Stella Burns.

SODAPOP : Stella, tu suoni da un sacco di tempo!

STELLA BURNS: Ehm, ho lo svantaggio di essere anziano, ormai classe ’70.

SODAPOP: Quando hai iniziato a suonare? Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica?

STELLA BURNS: Ho cominciato a cantare sui dischi dei Genesis quando avevo 8 anni all’incirca, avendo un cugino che dalla Sicilia portava a me ed a mio fratello varie cose. Abbiamo iniziato ad ascoltare Bruce Springsteen, Everything But The Girl, cose diverse, i Talking Heads, cose molto diverse. Poi verso i dodici anni ho iniziato a suonare la chitarra da autodidatta (lo sono rimasto sempre) ed a suonicchiare un po’ di pianoforte in Sicilia da mio zio, poi ho iniziato da subito a scrivere delle canzoni anche se non sapevo suonare.

SODAPOP: Scrivevi in italiano od in inglese?

STELLA BURNS: In realtà io scrivevo la musica, poi ci cantavo sopra delle cose in inglese finto. Da sempre mi è sempre interessata la parte musicale, dell’arrangiamento e delle melodie rispetto al testo che arriva sempre un po’ dopo, per cui per anni ho sviluppato la parte legata alle melodie ed agli arrangiamenti, alla composizione. Il mio approccio è sempre stato legato al mondo anglosassone insomma. Il mio primo gruppo vero è stato nel 1988, a 18 anni, The Moss Garden (da una canzone di Bowie) ed essenzialmente facevamo new wave.

SODAPOP: Beh, essere già nel mondo Bowie a diciott’anni non è male comunque come partenza.

STELLA BURNS: La prima cassetta di Bowie la ascoltai a 12 anni: era una cassetta di mio cugino, però non è che lo capissi proprio. A 16 anni poi mi trovai in ospedale con una pupilla dilatata per una pallonata nell’occhio ed un mio amico mi portò due suoi dischi su una cassetta…mi ritrovai lì ad ascoltarli, pupilla dilatata, ospedale, Bowie, è cambiato tutto.

SODAPOP: Il battesimo ideale quindi! Da qui la cosa di Bowie ti è rimasta addosso comunque..

STELLA BURNS: Molto, molto…mi ha condizionato!

SODAPOP: Ascoltandoti i riferimenti a Bowie sono espliciti (il nome, un certo immaginario), però sei comunque su un altro mondo. Nel western ma sei un alieno rispetto al contesto, c’è qualcosa che non collima e sembra essere la tua poetica. Che forse ti avvicina alla sua poetica più che alla sua figura.

STELLA BURNS: Io essendo nato in Sicilia e poi trapiantato a Livorno, dove comunque mi hanno sempre considerato non un livornese, tornando in Sicilia non ero comunque siciliano e questo mi ha sempre fatto molto soffrire. Alla fine è diventato un po’ un modo comunque di vivere le cose ed in Bowie, senza nessuna pretesa, mi sono sempre riconosciuto nell’essere un corpo estraneo. L’essere un cowboy didascalico non avrebbe senso, così come rifare Bowie in maniera pedissequa.

SODAPOP: La personalità di stella Burns si percepisce, vive in quel personaggio, alter ego o come tu consideri il tuo io artistico..

STELLA BURNS: Lo ucciderò, prima o poi lo ucciderò!

SODAPOP: Beh, sono fasi artistiche che cambiano! Io sono rimasto sorpreso dall’accenno di italiano del disco: come ti è uscita questa idea?

STELLA BURNS: Io in realtà ho cantato per otto anni in italiano, nei Tangomarziano, facendo e vincendo anche Arezzo Wave senza però poi pubblicare mai niente. In italiano però non mi sono mai sentito tanto a mio agio perché gli ascolti ed i modelli che ho avuto non sono mai stati italiani. Quando l’ho fatto in quel gruppo mi sono sempre sentito a disagio con un risultato che non mi soddisfaceva: né nei testi né nella mia voce, che proprio non mi piaceva. Questa canzone è nata in un modo un po’ assurdo perché in Svizzera, due giornalisti (Patrick Claudet e Laurent Schlittler) durante la pausa caffè, si misero a scrivere 50 recensioni di dischi inesistenti, con le copertine, titoli, durate delle canzoni e tutto quanto. (ndr, Ne nacque un a piattaforma web e poi un libro: The LP Collection. Les trésors cachés de la musique underground) Il comune di Livorno decise di investire in questa cosa, chiamando dei musicisti (fra i quali io) per registrare un album di cover di uno di questi dischi. Fu scelto un disco scritto da un certo Scottie Poon, un tedesco in vacanza in Italia, che intitolò questo disco Fiumicino. Tra queste canzoni ce n’era una intitolata Long Walks in the Dark. Io avevo soltanto il titolo ma immaginando questo tedesco in Italia mi è sembrato naturale aggiungere una parte in italiano (immaginavo anche di cantarla con un accento tedesco ma poi ho desistito!). So che in Giappone fecero cose analoghe con questi dischi e che Anna Calvi voleva cimentarsi con un’altra parte di repertorio…
Facemmo due serate di presentazione in un parco di igiene mentale a Livorno, molto molto belle!

SODAPOP: Un’altra cosa che mi è venuta in mente ascoltandoti è questo legame tra l’Italia ed il west, molto stretto. Ennio Morricone, Sergio Leone, un immaginario comune, moltissimi musicisti italiani che ti trasportano in Arizona o dove diavolo meglio stiano. Se penso alla mia infanzia mio zio divorava Tex, che era un immaginario imperante e faceva del west luogo fantastico. Recentemente ho avuto il piacere di intervistare Lucio Corsi che mi raccontava di questo immaginario in Toscana (fra butteri e cavalli) assolutamente pertinente. Però qui appena parte la chitarra, la sabbia e la polvere ti trasporta in quel territorio deserto. Da cosa parte questa fascinazione, se riesci a risalirne. Siamo comunque in un altro mondo rispetto a Bowie e Genesis.

STELLA BURNS: La cosa buffa tra l’altro è che tanti americani che fanno western magari poi sono influenzati da Morricone, per cui ci sono veramente delle particolarità in questo mondo immaginario. A me ha sempre affascinato il western surreale, quelli di Sergio Leone ma anche titoli di serie B di quando ero piccolo, però questa cosa legata alla musica ed al personaggio che sono in qualche modo diventato è più legata ad una questione estetica, trasversale come può esserla la figura del cowboy urbano, come potrebbe esserlo un Vincent Gallo in qualche modo. È stato un periodo in cui l’estetica di Buffalo ’66 è stata molto importante per me.

SODAPOP: Vabbé, capolavoro!

STELLA BURNS: Sì, sì, capolavoro! Poi vabbè, qualche critico poi ha detto che sarebbe stato anche meglio se Vincent Gallo ogni tanto si fosse tolto da davanti alla macchina da presa, però a me piace così.

SODAPOP: Vabbè, lui nel cuore.

STELLA BURNS: Quindi tutto nasce così per il mio progetto solista, poi io per anni ho suonato con gli Hollow Blue che è stato il mio progetto principale per tanto tempo col quale abbiamo fatto veramente tante cose. Poi ho iniziato ad andare in giro con il cappello da cowboy però…cioè, non mi immaginavo in giro con gli speroni, quelle cose lì le trovo al limite del pacchiano e del caricaturale, che non mi appartengono. Mi sono sempre immaginando, parlando dell’estetica (crescendo con Bowie è sempre stato molto importante quel lato), questa cosa: Bowie con il cappello da cowboy è qualcosa comunque di diverso. Poi ho cominciato ad esplorare un po’ di strumenti: banjo, mandolini autoharp, quindi scivolando in questo immaginario. Non volendolo ma appassionandomi con elementi che sono diventati parte delle cose che scrivo, ma con ascolti anche molto diversi. Johnny Cash ad esempio ho iniziato ad ascoltarlo a 40 anni per dire, prima non mi interessava neanche. Sono un ibrido di tante cose, ci tengo anche che le copertine non siano così esplicite, il western rimane un mondo immaginario, come i mondi di Emilio Salgari, un mondo in cui in qualche modo inserisco degli elementi western ma altre davanti alle quali i puristi del genere inorriderebbero.

SODAPOP: Questo fato della misura, del controllo e dell’eleganza l’ho evidenziato, si sente ed è una delle tue cifre stilistiche del progetto credo. Questo lato estetico comunque fa parte dell’immaginario e della musica: i Black Flag non esisterebbero senza le quattro strisce, i Ramones senza i giubbotti e Johnny Cash senza il vestito. È anche vero che forse fa strano questa cosa nella musica pop e rock italiana, che non è mai stata caratterizzata in questo senso.

STELLA BURNS: No, è vero, a me vengono in mente ad esempio i Birthday Party, anche al limite del punk, quindi sì…c’era Dan Fante che mi diceva “Mi piacerebbe vederti vestito da cowboy, chiamandoti Stella, con un nome da donna in Texas..”.

SODAPOP. Sì, non so che fine faresti! Tu mi citi i Birthday Party che in realtà sono australiani, quindi questa cosa è universale e slegata dai paesi. Tu sei difficilmente collegabile all’Italia, mi sembra proprio un viaggio singolo quello di Stella Burns, mi sembra proprio una cosa tua, pur avendo diverse collaborazioni (Laura Loriga, Ken Stringfellow) di personalità molto interessanti che però non portano il disco da una parte o dall’altra ma lo colorano lasciandolo nel suo viaggio e questo mi sembra molto interessante.

STELLA BURNS: Comunque ti confesso che sono forse uno dei pochi collezionisti dei dischi di Mino Reitano…ho una settantina di dischi fra album e singoli, ero in contatto con la moglie, vabbé, cose…per dire che comunque la musica italiana di un certo tipo, anche e soprattutto quella delle orchestre degli anni ’60-’70, a partire da Ennio Morricone, le orchestre della RAI, di Pino Calvi, mi hanno influenzato tantissimo. Il mio lato italiano, non so se si senta, va tantissimo in quella direzione.

SODAPOP: Ok, è vero che è un lato italiano che forse ha influenzato te ed altre persone più all’estero che all’Italia quindi rimane questo lato apolide in un certo senso…comunque riguardo a Mino Reitano ed alla musica leggera italiana negli ultimi quindici anni uno dei pezzi più belli che ha fatto un cantante (che io non sopporto a parte quattro o cinque canzoni) che è Eros Ramazzotti è un pezzo country western, che credo non si sia praticamente filato nessuno. Probabilmente il west riesce a dare un senso a cose che un senso non ce l’avrebbero, quindi bisogna dare spazio a questo immaginario.
Ho notato che le collaborazioni all’interno dell’album sono molto aperte e variate: Diego Sapignoli, Laura Loriga, Ken Stringfellow, Sergio Carlini, Mick Harvey, Marianna D’ama, Dan Fante. Che tipo di lavorazione ha avuto il disco? Avevi delle persone con le quali sapevi di voler collaborare? Come ti sei mosso?

STELLA BURNS: Allora…ha avuto una gestazione lunghissima, più del solito. Io sono parecchio lungo perché scrivo tantissime cose ma poi materialmente (facendo anche un altro lavoro) diventa difficile concretizzare le cose così diversa roba mi invecchia fra le mani. Proprio per questo a casa cerco di non suonare quasi mai perché altrimenti appena prendo in mano uno strumento esce fuori una melodia o una qualche cosa che poi non riesco a pubblica e vabbè! Questo disco ha avuto una gestazione travagliata perché ho avuto diversi lutti nel frattempo: è morto mio padre, il mio più caro amico che suonava con me, col quale abbiamo fatto tantissime cose insieme, dai Tangomarziano a questo progetto. È morto Dan Fante, prima era morto David Bowie che per me aveva significato davvero tanto…poi c’ê stata la pandemia, per due mesi mi sono ammalato, quindi è stata una cosa…
Ci tenevo a pubblicarlo il prima possibile ma poi ci siamo dilungati. Non avevo in mente con chi collaborare, a parte la canzone con Mick Harvey perché lì ho scritto un pezzo e non volendo mi è venuto in mente lui. Noi eravamo già in contatto da tempo, fin da un concerto a Livorno dove non so perché lui mi aveva preso in simpatia. D lì in poi abbiamo iniziato a scriverci ed ad incontrarci ogni volta nella quale veniva in Italia. Mi diceva di non seguire quasi nessuno su Instagram a parte me, cose così. Quando ha suonato con PJ Harvey sono andato a vederli…però non gli avevo mai chiesto di collaborare perché non volevo rovinare questo legame, questa strana amicizia a distanza. Però ad un certo punto ho scritto questa canzone che avrei voluto fare ma che non volevo chiedergli. Dopo il covid, tornato a casa, sono cambiate un po’ le mie prospettive. Cosa aspetto? Glie l’ho chiesto e lui si è dimostrato entusiasta: in un paio di giorni mi ha mandato la voce registrata ed è stato….diciamo che mi sarebbe piaciuto ci fosse lui lì ed alla fine il desiderio si è arrivato. Per gli altri mi sarebbe sempre piaciuto collaborare con loro ma non erano pianificate o legate ai pezzi, non l’avevo pianificato.

SODAPOP: Il disco da chi è stato registrato e prodotto e dove?

STELLA BURNS: Il disco è stato registrato in parte a casa mia, qui proprio in questo salotto dove ci stiamo chiamando. Basso e batteria invece sono stati registrati da Francesco Giampaoli, bassista già dei Sacri Cuori, che poi è uno dei soci di Brutture Moderne che pubblica l’album, che collabora con Diego Sapignoli eccetera…alla fine è tutta una famiglia, quel giro romagnolo.

SODAPOP: Non erano legati anche a Strade Blu, alla sua organizzazione?

STELLA BURNS: Allora, Strade Blu era organizzato da Antonio Gramentieri, che dei Sacri Cuori era il chitarrista. Siamo amici anche con lui, quando sono venuto ad abitare a Bologna sono stati fra i miei primi contatti. Li avevo fatti suonare a Livorno, mi piacciono molto e li stimavo tanto e quindi quando sono venuto qui a Bologna ho ripreso i contatti. È stato prodotto artisticamente da me: Francesco ha fatto il mixaggio ma io già gli avevo fato avere un pre-mixaggio molto preciso, quindi la produzione è mia.

SODAPOP: Tu che tipo di musicista sei? Riesci a controllarti ed a concludere o hai bisogno di qualcuno che ti fermi?

STELLA BURNS: Ho bisogno di qualcuno che mi fermi! Sono abbastanza bulimico purtroppo..non vorrei. Vorrei riuscire a fare una canzone chitarra e voce ma non ci riesco perché su ogni cosa che faccio mi vengono in mente un sacco di melodie…non vocali per forza, ma di un sacco di altri strumenti ai quali faccio fatica a rinunciarci. In realtà avrei bisogno di un produttore del quale mi fido che mi dica fermati…non è detto che il prossimo disco non sia così!

SODAPOP: Se dovessi pensare ad un produttore col quale poter lavorare sul prossimo disco da chi andresti?

STELLA BURNS: Allora…mi piacerebbe lavorare con Taylor Kirk dei Timber Timbre, col quale tra l’altro siamo in contatto, quindi potrebbe essere…lui poi ha una visione che architettonicamente e come suoni mi piace molto e riesce ad essere minimale, avendo solo voce, batteria ed un basso ed il pezzo non ha bisogno di altro: mi piacerebbe raggiungere quella cosa lì. Ha comunque un gusto per il vintage che mi è familiare.

SODAPOP: Sì, in effetti potrebbe essere l’uomo giusto, c’è questo lato di equiilbrio e di misura che probabilmente vi fa ragionare in maniera simile. Ma il prossimo disco? Sarà una cosa più a breve termine? Stai già lavorando ad altro oppure sei su questo?

STELLA BURNS: No, sono su questo, assolutamente. Ho bisogno, proprio perché faccio spesso questo errore, di vivere il disco prima di produrre altre cose che potrebbero invecchiare. Il prossimo disco comunque, al di là della produzione mi piacerebbe lavorare con i musicisti coi quali sto lavorando adesso per i live coi quali mi trovo veramente bene. Sono sempre stato fortunato con i musicisti con i quali ho suonato, professionisti molto molto bravi, nel farli entrare nella mia visione e farla loro, aggiungendo poi qualcosa di più al pezzo. Coi musicisti coi quali suono adesso mi sento veramente in sintonia e mi piacerebbe tornare un po’ al modo in cui lavoravo con gli Hollowblue. Io portavo il pezzo voce e chitarra, loro aggiungevano le loro parti, ed io a casa mi occupavo di unire le parti lavorando sulla produzione. Ricevevo molto dagli altri ed essendo una cosa che succede quando c’è una grande sintonia fra i musicisti e mi piacerebbe che il prossimo disco nascesse così.

SODAPOP: Mi dicevi dei live…avete già delle date?

STELLA BURNS: Lo abbiamo presentato al Locomotiv l’11 gennaio, poi andremo a Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, in un negozio che vende abbigliamento da cowboys e strumenti vintage, poi a Villafranca di Verona. Farò anche qualche data da solo (ne ho fatte sette a dicembre), visto che per il budget no ci è sempre possibile uscire insieme. Di norma siamo in quattro (Pino Dieni alla chitarra acustica, io all’elettrica, Lorenzo Mazzilli al basso e Samuele Lambertini alla batteria), anche se al Locomotiv saremo in sei, ci sarà anche Maria Pia Console alla tromba e Mario Franceschi al piano. In apertura avremo Pip Carter, un musicista modenese molto bravo. Quando sono da solo vado con chitarra, voce e registratore a bobina, quindi ho una sorta di base sotto e faccio una specie di karaoke vintage di me stesso.

SODAPOP: Sei un musicista al quale piace dare degli spunti, dei consigli all’ascolto, a raccontarsi oppure quando un lavoro è fatto è fatto e lo lasci in pasto alle orecchie altrui?

STELLA BURNS: No, sono assolutamente aperto al raccontare, se qualcuno è interessato, poi alcune cose rimangono misteriose anche per me e si svelano piano piano, soprattutto per i testi.

SODAPOP: Testi che infatti non sono inclusi nel disco…

STELLA BURNS: No, ma sto finendo e spero di farcela a pubblicare per l’uscita del disco una cosa forse un po’ pretenziosa ma che in tanti mi hanno chiesto: un libro con vent’anni di testi tradotti in italiano, con delle foto. Una tiratura piccola, che a maggior ragione vista la confezione super minimale del disco potrà essere una piccola chicca di 140 pagine.

SODAPOP: Beh, vent’anni di testi sono una vita, è un bell’universo e può essere molto interessante!

STELLA BURNS: Poi sarà utile a me quando dovrò andare a ricercarli…

SODAPOP: Quindi nei concerti farai anche cose più vecchie?

STELLA BURNS: Certo, mi piace mischiare tutto, non ci sono cesure stilistiche nette e quindi mi piace anche fare qualche salto nel passato…

SODAPOP: Direi che allora non c’è nulla da perdere, ne disco, ne libro ne live, mi toccherà andare a ripescare nel tuo storico visto che non lo conosco tutto per essere preparato…

STELLA BURNS: Se devi partire da qualcosa ti consiglio l’ultimo disco degli Hollow Blue e poi, tra le canzoni vecchie di Stella Burns Another Callit’s what i’m waiting for. Queste due cose qua!

SODAPOP: Seguo volentieri il tuo consiglio e grazie mille per tutto Gianluca..

STELLA BURNS: Grazie mille a te!