Da sempre aperto all’incontro fra parola e musica, con la prima alla continua ricerca di suoni che la veicolino, Psycho Kinder , progetto di Alessandro Camilletti, arriva con Epigrafe alla quinta uscita lunga e per l’occasione si circonda di musicisti, uno per traccia, dotati di spiccata personalità, eppure capaci di dar vita a un album che evita lo sgradevole “effetto compilation”, sempre in agguato in questi casi. Anche se la parola recitata rimane l’elemento centrale del lavoro, il valore musicale non viene meno grazie alla simbiosi che si crea fra il suono delle corde vocali e quello degli strumenti elettronici: se sintetici sono la maggior parte dei macchinari usati, sintetica si fa la parola, proseguendo sulla strada intrapresa con Diario Ermetico. Abbiamo così le crude analisi sul presente di Tape 2 e Tape 3, la prima in compagnia di Michele Caserta – con le frasi che si frazionano secondo gli schemi ritmici – la seconda sull’elettronica fredda e spettrale di Ge-Stell; le fulminee riflessioni di Tape 1 – per la quale Moreno Padoan squadra blocchi di noise espressionista sconnesso e spigoloso, a mio parere il momento più alto del disco – e di Tape 6, con l’ambient isolazionista elaborato da Deca; la narrazione cinematica di Celery Price in Tape 5 e lo stridente dub industriale di Tape 7, con Giorgio Mozzicafreddo alle macchine. Categoria a sé fa Tape 4, musiche di Giovanni “Leo” Leonardi (Carnera, Siegfried) e Valeria Cevolani alla voce (su testo ovviamente di Camilletti): un soundscape sporco che va via via addensandosi, mentre il sussurro sale di tono fino a diventare grido che rievoca, in chiave esistenzialista, i comizi dei Discipinatha (sì, un po’ di brividi vengono). Chiude la serie – aprendosi al futuro di una prossima collaborazione – un lungo brano di Maurizio Bianchi concluso da un aforisma del letterato goriziano Carlo Michelstaedter: “L’assoluto, non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce.” Una dichiarazione d’intenti, verrebbe da dire, per un artista che nella tensione fra un linguaggio attento al contemporaneo e una visione della realtà estremamente critica ma mai cinica né rassegnata, trova la sua cifra stilistica, cifra che un lavoro come Epigrafe mette in luce con grande chiarezza.