Massimo Silverio – Hrudja (Okum, 2023)

L’album d’esordio di Massimo Silverio è un disco difficile che potrebbe anche piacere al primo ascolto per il suo essere un oggetto totalmente alieno, qualcosa che si stacca nettamente dal panorama odierno e va costituire categoria a sé; quello che colpisce in Hrudja non sono la stranezza o l’esotismo, bensì il percepire, tra le melodie e il cantato fortemente evocativo, qualcosa di profondo e sfuggente, che parla al nostro inconscio ma che, razionalmente, fatichiamo a definire.
Il perché sta probabilmente nel luogo dove inizia la storia, la Carnia, terra natale di Silverio, dalla quale il nostro attinge la lingua (il carnico, dotato di un lessico e una sintassi tutti suoi) e la forma delle composizioni (la villotta friulana) che, in studio, sono andate a combinarsi con sonorità debitrici del post-rock… meno rock e più votato all’elettronica, portate in dote, immagino, da Manuel Volpe (Rhabdomantic Orchestra), qui nella doppia veste di musicista e produttore. Nasce così Hrudja, un album folk con un suono che, più che minimale, definirei essenziale, talvolta crudo, dove la scrittura (e solo in seconda battuta la registrazione) annulla la differenza fra strumenti acustici ed elettronici in canzoni dove spirito ancestrale e contemporaneità si compenetrano alla perfezione.
Il risultato, dicevo, non assomiglia a nulla che possiate aver già ascoltato; certi aspetti potrebbero richiamare il folk notturno di Songs:Ohia e dei primi Black Heart Procession, ma il carattere della terra d’origine trasfigura il tutto e queste rimangono solo suggestioni, tuttalpiù esempi di artisti che, lontani nel tempo e nello spazio, condividono uno spirito comune. Tra parentesi: l’imprinting carnico è così forte che di questa “estraneità” finiscono per usufruire anche Piel ed Algò, gli unici due brani cantati in inglese.
E proprio coi testi, inscindibili dalla musica, il discorso si fa ancora più complesso. Dicevamo delle profonde differenze della lingua utilizzata con la nostra: già dopo un primo ascolto e lettura, anche senza essere esperti di linguistica, ve ne accorgerete. E altrettanto chiaro vi apparirà come, nonostante le traduzioni riportare (in italiano e inglese), il significato pieno ci sfugga; possiamo tuttavia sperare di afferrarlo, una volta colto il tema, attraverso ciò che il suono comunica ed evoca. Quelle di Hrudja sono storie dolenti, come il rock straniante e, a suo modo, epico di Jevâ o la minimale Grusa, oppure preghiere amorevoli che prendono la forma dell’anomalo jazz di Criure, o ancora fosche ninnenanne come Nijò e raccontano di vite che percepiscono con senso del dramma l’alternarsi di giorno e notte e il trascorrere delle stagioni, con il caldo e il freddo come compagni quotidiani e per le quali la poesia è fatta di ossa, sangue, pietra e legno. Vite che, negli stati più profondi dell’essere, sono anche le nostre.
Con Hrudja Massimo Silverio riscopre le sue radici e le connette col mondo; la cultura d’origine non è più semplicemente tradizione – un blocco statico – ma eredità, una forza dinamica che si sviluppa nel presente facendosi forza delle proprie peculiarità senza temere il confronto con la modernità: un’operazione le cui implicazione vanno ben oltre il semplice (si fa per dire…) aspetto musicale.