Enio Nicolini And The Otron – Hellish Mechanism (Hellbones, 2022)

Enio Nicolini, storico bassista della leggenda doom italica The Black, da un po’ di tempo si è messo in proprio circondato da un terzetto generazionalmente più giovane, dando vita a un insolito ensemble basso-batteria-tastiere-voce che può ricordare i Quatermass, ma solo per questioni di assetto. In questo caso il suono è infatti ancorato al periodo in cui metal e rock non erano ancora entità ben distinte e richiede qualche ascolto per mettersi in sintonia con quelle sonorità, non propriamente à la page e che nemmeno hanno goduto di un revival, come capitato ad altri generi. Eppure non può dirsi questo un disco per nostalgici, dato che è difficile trovare, tanto nel presente quanto nel passato, dei paragoni stilistici, se non fantasticando di una dimensione parallela dove il metal si fa senza chitarre, con poca distorsione e senza esasperazioni vocali: l’assenza delle sei corde si nota ma non disturba, mentre il coefficiente di pesantezza è garantito dalla batteria pestona, che sfoggia generosamente passaggi in doppia cassa, e dalle due linee di basso, una schiacciasassi e serratissima, l’altra a dettare le melodie; le tastiere lavorano sotto, dando spessore al tutto, e concedendosi frequenti ed espressive fughe spaziali. L’elemento a suo modo più…disturbante è probabilmente la voce – lontana da ogni stilema attuale e prossima a certe ugole del metal classico – che dà corpo alle varie anime presenti nel disco, di fatto un concept. In definitiva, più che come qualcosa di ostentatamente retrò, Hellish Mechanism si ritaglia una dimensione sua, coerentemente alla storia che mette in scena, una distopia che, alla maniera del miglior Carpenter, ci parla dell’oggi attraverso visioni del domani: un mondo spersonalizzato e schiavizzato, dove solo pochi hanno la lucidità e il coraggio di intraprendere la lotta contro il potere. Come dicevo, non è un disco da colpo di fulmine, richiede tempo, un certo amore per sonorità insolite e totale noncuranza rispetto alla coolness imperante, ma alla fine raggiunge il suo equilibro e potrebbe aspirare a una certa classicità. Al netto di qualche parte meno riuscita (il cantato in italiano di L’Osservatorio e lo pesudo-rap che intervalla A Brand New World, per il resto valida) l’album funziona e ha i suoi picchi nell’hard-boogie di Celestial Armada, nelle epiche The Prophecy e Single Higer Thought, dove la voce dà il meglio di sé, e in quello che forse è il pezzo più moderno, una The Old Lady che potrebbe uscire dal repertorio di qualche oscura noise band newyorkese dei tardi anni ’80. Si va così verso il finale aperto di Final Clash: lo scontro decisivo ha inizio. Voi da che parte state?