Ascoltare ad alto volume. Per quanto possa sembrare strano riferito ad un EP che ha nel piano lo strumento principale e di umore decisamente cameristico, questa è l’indicazione che dovrebbe campeggiare sulla copertina di questo nuovo lavoro di Bad Pritt. È infatti il volume che ci permette di cogliere ogni fruscio, ogni rumore, ogni minima increspatura del suono, tutte parti fondamentali di un lavoro che sulla valorizzazione di questi pochi ingredienti si basa. Distante delle atmosfere del disco d’esordio, alleggerito di buona parte dell’elettronica e della voce (ma non delle parole, che ritroviamo nel libretto allegato alla bella confezione curata da Marco Pandin), EP1 è un lavoro volutamente spoglio ma non povero: semmai minimale – nell’intessere piano, archi e silenzi – e sintetico, perché su certe cose è inutile, forse deleterio, dilungarsi. Esperire l’assenza – intesa in ogni sua forma – ed elaborarla: questo l’idea che ha ispirato il lavoro. Argomento non facile – il rimosso per eccellenza della cultura occidentale contemporanea – che qui prende la forma di sette brevi meditazioni, melodie pianistiche che, negli attimi di stasi, lasciano emergere fruscii, vibrazioni e rumori che si muovono all’unisono con le note, talvolta anticipando leggermente gli accordi, come se fossero state microfonate le meccaniche del pianoforte o il corpo stesso del musicista: tutti elementi che contribuiscono a dare spessore e tangibilità al suono e che ci parlano non meno della musica, una musica che rifugge le facili malinconie che il tema solitamente evoca, assumendo invece una compostezza quasi zen. Che si tratti della ripetitiva e vibrante Day 3, dell’incerta Day 4 o della più luminosa Day 6, ritroviamo sempre la concretezza di un’opera che non coinvolge solo l’anima, ma anche il corpo; e proprio sulla consapevolezza che la cura dell’una non può prescindere da quella dell’altro, si gioca l’elaborazione del lutto che EP1 mette in scena: non mera attività intellettuale ma atto, azione, relazione. Tutto dura poco più di venti minuti, un tempo breve ma sufficiente a toccarci e scuoterci nell’intimo.