Non è semplice calarsi dentro Titan Arum. I primi due minuti e trenta di Botox sono infatti in qualche modo respingenti tanto quanto ruvidi. Poi parte l’anestetico ed i suoi effetti collaterali, le due voci dei Father Murphy si uniscono in controcanti mentre la musica sempra perdere giri, rimanendo sciancata su se stessa. The men in pink Fabrizio Modonese Palumbo porta seco una famiglia allargata, spruzzi di colore in una formazione agile, che balla in una discoteca nella quale i Klaus Johan Grobe, gomiti al bancone, si troverebbero da dio. Pezzi brevi e pop si alternano a disgressioni ritmiche e gittate oscure e wave. Parasomnia è al tempo stesso distraente ed attraente, un flamenco dettato da creature in stato di trasformazione, forse proprio come il fallo gigante, mentre Oblivion chiude Depeche Mode e Xiu Xiu in una gabbia in cantina, lasciandoli a creare con giocattoli e sedativi. Il culmine è ovviamente il pezzo col cammello, For Those Like Me, che si avvale dei rumori del mammifero creando beats rullanti e tappeti dinoccolanti. Scavallato si prende del buon luccichio ’80, sguardi annebbisati e voci lontani per una Vacant Stares che si fa in fretta ottundente ed immediata. The Lama and the Rabbit è l’incontro di due coniugi, Fabrizio e Paul Beauchamp, di due luoghi, Torino e Svalbard (rappresentati dai field recordings recuperati su entrambi i campi, se l’avete perso recuperatevi quanto fatto in loco dai Blind Cave Salamander) e di un ukulele sommerso ed affogato nelle acque artiche. Tra elettricità statica e spire malefiche si contorce la seguente The Sssophisssticated Sssofa Sssnakesss fino a vedere una sorta di luminosità aggressiva che non ri riesce comunque a raggiungere, rincorsi da un beat dentro al quale vola fioca la lap-steel di Teho Teardo. Quando il tutto si cheta entriamo nell’ultima parte dell’album, con una Pira-Pira che stride e che brucia, quasi che l’infiorescenza sia ormai putrida ed inacidita, per pacificarsi sotto le parole di Klaus Miser. Con Red Coat e Lullaby (del per sempre grande Leonard Cohen) si entra nel finale: il primo brano sembra essere un cuore pulsante, caldo, abbandonato fra la neve. Le sventagliate di Fabrizio e Daniele Pagliero sono fredde e sferzano il viso, con il calore si attenua sempre di più e la luce che va a scomparire, fino a diventare un piccolo punto caldo in profondità, ormai irraggiungibile. Si chiude con una ninna nanna quindi, infernale come solo il nostro poteva offrirci, dolente e stridente, per un lavoro che forse mai come questa volta lo ha visto al timone di una banda dolente, cerimoniere di una congrega che ormai ha perso la rotta e vaga, trasformando ogni apporto nel teatro più spietato che esista, quello della vita. Se a questa vita in fiore aggiungiamo poi il vestito della festa, creato ad hoc dalla mano santa di Marco Schiavo che altro ci resta? Fatelo vostro, in ogni formato, e donatelo a chi vorreste vicino.