Un anno dopo aver innestato delle Psilocybe ovoideocystidiata inoculando i loro miceli su un albero di noce nero di un secolo Arrington De Dionyso raccoglie, consuma, si connette con le foglie, il sole che le avvolge, ricollegandosi ad un episodio simile di trent’anni prima, che cambiò radicalmente il suo ascolto ed il suo lavoro col suono. Si getta quindi sul piano in maniera appassionata e cacofonica, raccogliendo strali di suoni e di scale che si affastellano, si rincorrono e convivono in maniera agitata una accanto all’altra. Ma non c’è solo veemenza: c’è brio, la giusta tensione, quella che sembra una narrazione sonora in Piano Kebyar. Sospensioni come se qualcuno immoblizzase il pianista o forse non si sente così sicuro dall’essere salvaguardato dagli spari, chi lo sa. Fatto sta che è ora di tagliare la gola al capo degli schiavi (Slit the Throat of the Slavemaster è infatti il titolo del secondo brano, giù all’assalto a rotta di collo, in realtà uno smuovere tasti e vibrati terricoli per creare divrsivi, coperture, fughe. Sono grappoli di suono quelli gestiti dl musicista di Olympia, che a tratti si trasformano in melodia, a trati in stacchetti vaudeville, a tratti in commenti per strisce animate, sempre mantenuto all’interno degli argini. Difficile rimanere dritti per quasi trenta minuti senza annoiare, in questo vero e proprio treno veniamo colpiti, barcolliano senza cadere ed in qualche modo trascendiamo, cercando di trovare un nostro equlibrio all’interno di questa battaglia di tasti e di suoni.