AAVV. Chiasso Means Noise – 13.04.2024, Sala Carlo Basilico, Polus, Balerna

Giornata bifronte oggi, prima come parte attiva del festival ed in seconda battuta come spettatore della serata conclusiva, con le esibizioni di Tizia Zimmermann & Pablo Lienhard, Lenhart Tapes e Maple Juice. Nel pomeriggio il piacere di una chiacchiera insieme ad Enrico Monacelli per presentare il suo libro the Psychic Outdoors ad una sala delle Scuole Commerciali con pochi astanti ma attenti e proattivi. Ciò non ha tolto nulla, anzi, creando un ambiente nel quale per un’ora e mezza di discussione che (osservata dall’interno) scorrevole ed intrigante fra storiografia della bassa fedeltà, qualche accenno di Jandek e Daniel Johnston, i milanesi Kobra che ritornano fra aneddoti e racconti e la sensazione di un libro che, nella sua prossima traduzione italiana in programma per il mese di luglio, si rileggerà molto volentieri.
Giunti in loco con largo anticipo, mentre organizzatori (tra di loro Luca Zhed Corsini, Francesco Giudici, Alfio Mazzei ed Aline d’Auria di Spazio Lampo) ed artisti concludono una pizza mi aggiro nella Sala Carlo Basilico, annessa al Centro Polus, già complesso industriale per la produzione di sigari ed ora disponibile per diversi eventi ed esperienze.
Nell’aria girano le note di Mike Majkowski mixate a sette pollici di un corso di tedesco in una consolle predisposta al momento per Alfio, che ricordiamo già per le sue militanze in Nufenen e Black Fluo, poi sostituito da Alan Alpenfelt, anch’esso già con i Black Fluo, progetto post-punk che ancora si ricorda con molto piacere.
Il non conoscere nessuno degli artisti che si esibiscono in serata mi lascia carico di curiosità, sereno e sorridente verso una scena sempre più difficile da incasellare come quella noise elvetica e mondiale, refrattaria alle classificazioni vista l’ampiezza del termine e foriera di sorprese.
La selezione si sviluppa su toni world e psichedelico fino all’entrata in scena di Tizia Zimmermann & Pablo Lienhard, davanti ad una platea attenta ed aperta a quel che potrà accadere. Il suono della fisarmonica di Tizia è raddoppiato dalle elettroniche in un bordone in odore di eternità che lascia letteralmente incantati, per una fusione elettroacustica di elegante fattura.
I respiri dello strumento rapiscono, richiamando immagini romantiche come se fossero rifratte nelle spaccature di uno specchio. La comunicazione fra le due sfere, elettronica ed acustica, avviene per vicinanza tonale, lasciando ai bassi il ruolo di permeare e dare tridimensionalità ad una proposta che fa della semplicità e dell’intensità il proprio punto di forza, allungando i brani come da bravi discepoli del minimalismo è d’uopo fare, avvolgendoci completamente. La sala si riempie in maniera discreta e costante, toccando all’incirca le 70 unità e la risicata illuminazione lascia che sia il suono a parlare, con le sue placide ondate.
Col chetarsi dei movimenti si entra quasi in un antro sanitario dentistico, suoni di aspiratori salivari ed un’idea di Matmos privi di tensione, che allungano un finale quasi in forma di risacca, prima di abbandonarsi ad un suono acuto, fischio liberatore per diversi minuti senza sosta, risonanza imperitura su un corpo ormai esangue. Si riapre, lentamente qualcosa, passando per un’idea di drammatica tensione, memori di un mondo fantastico e terribile come quello dei film di serie B degli anni ‘70 per la sua semplice funzionalità.
Un’entrata in materia intrigante e bizzarra per chi si aspettava una connotazione Noise più power, per un’atmosfera che si mantiene elegantemente alle interno di un range musicale ostico più per concezione che non per rumore. Con il ritorno delle note, nella medesima onda sonora, si rientra in qualche maniera alla base, con zingaresche nenie sciolte in un mare di suono contemporaneo e toccante. Decisamente un bel trip.
Con il secondo set si passa in un campo parecchio più fisico, che spinge il pubblico a fronteggiare il palco seguendo il ritmo.
Lenhart Tapes mixa, sovrappone e spippola cassettine con un mixer, un walkman e due mangianastri trasformando richiami tradizionali in rumorismi tranchant e danzerecci. Quando la vocalist Zoja Borovčanin sale sul palco solo l’elvetica freddezza della platea evita che il dancefloor si incendi. Il set prende una piega a metà fra la dub session, la performance corporale e lo spirito primitivo che ci guida una volta cadute barriere e difese, dritto dal nostro cervello rettiliano. La danza è liberatoria e guidata dalle arti affabulatorie di Zoja, le fonti sonore di mischiano in un aura linguistica e semantica che richiama in qualche modo un comune centro energetico, screziato da sbandate freejazz e reggae balcanico. L’impatto sonoro è un vortice trascinante, come un carnevale di Notting Hill pigiato in un gremito Marakanà di Belgrado. La cognizione con la quale Lenhard metta e tolga i nastri sfugge ovviamente ai più ma crediamo sia una questione di magica armonia creata in parti uguali da alchimia, umidità e caotico savoir-faire.
Maple Juice sembra suonare con stilemi cari ai Mouse on Mars, affilando ancor più l’Unione techno colorata spingendosi in direzione Sonig. Ritmo dritto, videogames, cassa a martello e scampanellii. Il live set conquista minuto dopo minuto, dando seguito ad una situazione performativa apparecchiando quel che potrebbe sembrare un dancefloor/afterhours. In realtà il suo operato è ben più complesso ed in presa diretta riesce ad inglobare più elementi ritmici fino a montarli ad una consistenza cremosa e goliardica. Un ottimo traghettatore per un un festival del quale purtroppo abbiamo per questa edizione solo uno sguardo monco ma che, in poche ore ha saputo unire divertimento, attenzione e rumore in una serata di grande intensità.
Una splendida occasione, sperando che la prossima edizione possa essere ancora più sorprendente.
Chiasso means Noise non per altro…