Alessandro Bosetti – Fasfari (Xong, 2024)

Come si ascolta un disco? Come si guarda un film? Come si legge un libro? In definitiva come si affronta l’esistenza?

Mi facevo queste domande mentre passeggiavo al Cimitero Monumentale di Milano, pensando all’ascolto di questo nuovo lavoro di Alessandro Bosetti, e la mia risposta è stata: nel modo più puro possibile, tentando di evitare condizionamenti o informazioni pregresse che potrebbero dare una direzione piuttosto che un’altra all’esperienza. Sono conscio del mio essere un po’ naïf, ma voglio entrare completamente nell’opera e far sì che questo incontro prenda direzioni inaspettate. Certo, conosco il percorso di Bosetti e immaginavo il territorio in cui mi sarei avventurato, ma passeggiando sono rimasto piacevolmente colpito dall’aspetto prettamente musicale, melodico e ritmico di quest’opera per sole voci e a questo mi limiterò perché il corpus performativo/linguistico/musicale di Bosetti richiederebbe un lungo e profondo approfondimento che è ben al di là delle mie forze.

Illuminanti sono la genesi e la prassi esecutiva di FasFari, cito direttamente dalla cartella stampa: FasFari è la 36esima incarnazione di Plane Talea, un archivio/strumento che Alessandro Bosetti va costruendo dal 2016 fatto di voci anonime – ad oggi più di ottanta – ordinate in migliaia di emissioni vocali (utterances). Ogni performance di Plane Talea è preceduta da incontri in cui dei volontari donano la propria voce e accettano che essa possa vivere in autonomia, diventando un oggetto vivo, contemporaneamente fittizio e reale.

Tornando alla mia cimiteriale passeggiata, non appena iniziato l’ascolto di Fās, penso subito a Prima Materia e al loro lavoro intriso di misticità ma anche di un utilizzo della voce portata alle sue possibilità estreme; questo primo pezzo di 6 minuti muta dalla stasi a una ritmicità spezzata e sporcata da sospiri e respiri. Fās mi ha fatto comprendere da subito di trovarmi di fronte a una profonda conoscenza di tutte le ricerche vocali moderne e antiche rielaborata in una rigorosa ricerca personale che non potrebbe essere più contemporanea di così. Con Fari le cose cambiano e prendono una direzione diversa; se inizialmente il pensiero va ai lavori di Meredith Monk, dopo poco tutto si stratifica e incastra come in La Vie mode d’emploi di Georges Perec, tutto è corale, assonante e dissonante allo stesso tempo, le voci si rincorrono e la composizione si chiude con un urlo che sembra essere quello di antichi pastori dispersi in lande aride e desolate.

In Flatus e Fracies la parola è fatta a pezzi e ricomposta in due brevi brani la cui materia sembra fatta di tutte e nessuna lingua, due labirinti che ci ammaliano convincendoci di intuire un segreto che forse potremmo cogliere ascoltando con sempre più attenzione, ma è una chimera.

Il quinto brano, Factus, invece mi ha portato subito alla mente lo Studio per fiati di Luciano Cilio; con le dovute differenze, ho ritrovato in questi lunghi bordoni intervallati da dissonanze la stessa sacrale rarefazione raggiunta da Cilio nel suo lavoro, una dissoluzione della forma che lentamente va coagulandosi in una nuova struttura sfuggente. Afasia si apre con voci ritmiche e cristalline, ma poco dopo tutto si fa sciame, si sfilaccia; le voci iniziali tentano una lotta impari contro lo sciame sonoro che le sta investendo e inesorabilmente vengono inghiottite, niente è più leggibile ma solo percepibile. In Fate ci viene enunciato l’aggettivo “cristallina” smontato e rimontato, perso e ritrovato, come se davvero delle fate cercassero di appropriarsi di un nuovo linguaggio; di cristallino in questo breve brano c’è l’alternanza quasi geometrica di suono e silenzio.
Fasti si apre con un andamento di Glassiana memoria, ma poco dopo ci è chiaro che di quel evocativo minimalismo abbiamo solo una lontana assonanza; qui tutto è meno lucente e brillante e diviene pian piano lento e potente come la lava che cola dal vulcano, ma negli ultimi secondi si rasserena come a dirci di ricordare bene quello a cui abbiamo assistito ora che siamo riusciti a tornare indietro.

Futon è una nenia che ci culla, lente e dialoganti voci procedono come se ci confidassero i sogni al momento del risveglio, in quella terra sfocata tra fantastico e quotidiano. Con Arruffato la straniante sensazione è stata quella di trovarmi in una sessione di canto Dhrupad, che è il genere più antico della musica colta dell’India del Nord. Amelia Cuni dice: “per mezzo del verso poetico la mente entra in una meditativa esplorazione del suono e del contenuto; per Dhrupad, il canto è la più diretta ed efficace forma di preghiera e di contemplazione.” Questa decima composizione, dal mio punto di vista, non è solo assonante con il Dhrupad per vicinanze sonore, ma anche per l’intensità rituale che vi si respira; al mio orecchio sembra di cogliere almeno tre livelli su cui si muovono le voci, questo organizzatissimo vociare non può far altro che trascinarci con sé in una sacra architettura di cui ci sfuggono struttura e confini, ma non certo la luminosissima essenza.

Nell’ultima traccia, Facile, siamo in un territorio fatto di scatti e intarsi vocali sempre più veloci che ci riportano alla memoria l’imprescindbile Metrodora di Demetrio Stratos; un repentino rallentamento ci lascia poi disorientati in un silenzio di cui ora possiamo toccare con mano l’intensità dopo esserci iper esposti alle monumentali composizioni di Bosetti.

Quello che mi auguro e vi auguro, ascoltando queste composizioni, è di riuscire a raggiungere uno stato di sereno abbandono in cui forse è percepibile la sottile correlazione fra silenzio e parola, di raggiungere un ascolto pieno mentre tutto tace intorno e dentro di noi.