7 Training Days – Wires (Autoprodotto, 2013)

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Arrivano al secondo album i laziali 7 Training Days e parlare di maturità, quando già lo abbiamo fatto per la prima uscita, ha poco senso: anche se relativamente giovane, il quartetto suona come un gruppo forgiato da anni palchi e di chilometri on the road. Sarà allora più sensato sottolineare la capacità di confermarsi, arricchire il proprio linguaggio senza snaturarsi e al contempo approfondire quanto di buono già ascoltato il precedenza.
I 7 Training Days sono soprattutto autori di belle canzoni, giudizio magari semplicistico ma dote in fin dei conti piuttosto rara: parto da una voce espressiva, da gran lavoro di basso e batteria, incisivi ma non invadenti e da due chitarre ben calibrate e vanno ad attinge a un repertorio classico, quello del rock americano dei ’90 consapevole delle proprie radici che affondano nei decenni precedenti, ma senza mai dare l’idea di già sentito o riciclato. Questa volta, nella loro musica melodica ma mai sdolcinata, emerge un suono più saltellante e dinamico di ascendenza inglese, ma rimane una drammaticità di fondo, che emerge in brani come l’acustica Gone, degna dei Pearl Jam meno trendy e migliori, in una I Will che non sfigurerebbe nel repertorio di Mark Lanegan o una Wires di pura sofferenza. Se a queste aggiungiamo una Pocket Venus ripescata dal singolo dello scorso anno e che è un piacere riascoltare, ne esce il bilancio di un disco quasi senza riempitivi (la sola Down By The River mi convince meno delle altre), un’alra manciata di belle canzoni che vanno ad arricchire un repertorio già importante. Qualitativamente è difficile pensare a un ulteriore salto di qualità, il livello è già molto alto: servirebbe, quello sì, un salto a livello di esposizione mediatica, ma quello purtroppo non dipende da loro.