Weyes Blood – And in the Darkness, Hearts Aglow (Sub Pop, 2022)

Non conoscevo Weyes Blood fino al 12 ottobre. Poi ho letto un post su Facebook di Carlo Bordone che l’ha definita “tipo la miglior cantautrice pop contemporanea (ma di gran lunga)..” e mi ci sono perso.
Questa recensione potrebbe finire qui.
Ma in raltà sarebbe giusto sapere che Natalie Mering è in grado di prendere una tela bianca e di dipingerci con colori forti e sicuri, attenta però che nessuna goccia coli sopra la cornice. Gli arrangiament sono classici e slabbrati ma mai sopra le righe, la sensazione è che il tutto si trovi in bilico e potrebbe cadere da un momento all’altro ma, per magia, tra un rintocco di piano ed una campanella, riesca a mantenerci stupiti ed attoniti di fornte al suo funzionamento. Pop in qualche modo orchestrale, in qualche modo classico, in qualche modo…pop personale, di un’artista di 34 anni che si è già sporcata le mani a diversi livelli, iniziando a suonare power electronics ed harsh noise a 15 anni dopo aver visto i Wolf Eyes e passando pure dalla sagrada famiglia dei Jackie-O-Motherfucker per finire in un terreno che l’ideale punto d’incontro fra gli anni ’60, il medioevo e l’odierna sensazione di poter essere in qualsiasi tempo ed in qualsiasi luogo. Grapevine è talmente intensa che farebbe innamorare Carole King, talvolta i contorni assumono un sapore epico e quasi fantasy che, a socchiudere gli occhi, si potrebbe pensar di intravedere la Pfeiffer mentre volava nelle vesti di falco in Ladyhawke. Ci si libra, si chiudono gli occhi viaggiando tra vocalizzi, archi e bordoni. Poi si gonfiano i cori, oh, si gonfiano con gli organi in Hearts Aglow, e come resistere al farsi trasportare altrove da queste voci dell’anima che ti strappano dal suolo? C’è sofferenza, c’è catarsi, c’è classicità e c’è il dono dell’intensità. Dopo la veloce discesa nell’oscurità il ritmo sembra cambiare, arriva la sintetica ed angelica Twin Flame che potrebbe anche fare dei discreti sfracelli, in quell’aura da sacralità 2.0 in trasformazione del proprio corpo a pane per le masse.
In The Worst si accompagna ad un’esplosione di aperture melodiche chinandosi sul peggio di questo periodo storico che forse non è ancora finito, che forse ci siamo lasciati alle spalle, che forse ci sorprenderà…non siamo in grado di dirlo, quel che è certo è che avremo un maggiori numero di canzoni da ascoltarci a casa…su questa potrei anche azzardare uno sconclusionato accompagnamento all’ukulele, a scongurare il peggio. Finiamo piano e voce, forse non poteva che essere così, per un disco che fa dell’intensità e dell’equilibrio le sue doti migliori, mettendo in piazza una parure di colori che riesce a trascendere tempi e stili.