Il duo Francesco Vara e Luca Scotti torna sul luogo del delitto a un anno dal disco d’esordio, riproponendo la formula che ce li ha fatti apprezzare – post rock intessuto di influenze che vanno dal doom allo slowcore, suono scarno e crudo, pochi effetti e molto suonare – con le dovute variazioni utili a rendere interessante il nuovo capitolo. Se il precedente Soçobrar si caratterizzava per essere una cavalcata liberatoria per chitarra e batteria, Praia sembra attestarsi su toni più meditati, almeno inizialmente: Pescador procede lenta e rumorosa, toni scuri e un’epica quasi neurosisiana, pur senza urla belluine (le chiama in effetti, ma non arrivano), Anos è sempre lenta ma meno cupa, e verso la metà trova la quadratura affogando belle melodie in una coltre di rumore; poi, nella seconda metà, il suono si fa meno opprimente, con le aperture ariose di Cachalotes e l’onda sonica di Na Praia che riportano l’album in prossimità delle coordinate dell’esordio. Tristan Da Cunha è questo, musica senza contenuti, rimandi o immaginari di riferimento, se non quelli che l’ascolto può evocare a ciascuno: suonare per suonare. Lo so, detto così sembra qualcosa di estremamente negativo, ma dipende da come lo si interpreta. Lo si può intendere come pratica fine a sé stessa oppure come modo per cogliere il senso più puro del suono; quando si realizza il secondo caso siamo davanti a un profondo atto di fiducia nei confronti della musica, verso la sua capacità di trovare senso e comunicare su lunghezze d’onda non solo al di là del verbale, ma anche del razionale. Ci troviammo, è ovvio, nel campo della più assoluta soggettività, ma personalmente mi sembra sia questo che Trista Da Cunha cerca di fare. Riuscendoci.